domenica 24 febbraio 2013

Kaze ni Kasen
Napoli - 4/2/2013


Montemarano - © Erika Chiappinelli 2013

Intenso freddo ―
È piacevole stare
In un rifugio
[Diego Rossi]

Le orme di una lepre
Sulla neve compatta
[Stefania Nardone]

Sul ramo secco
La nottola lamenta
La buia notte
[Maria Valeria Ferruzza]

Dalle cime dei monti
Il pastore discende
[Titti Tidone]

Ecco la luna
Tra le nuvole erranti
Luce diffusa
[Marina Nardone]

Sotto il cielo plumbeo
Veleggiano le barche
[Gianfranco Irlanda]

Preda del vento
D’autunno l’aquilone
Cade ferito
[Cristiano Sorrentino]

Riprendendo il suo volo
Ormai è stanco e solo!
[Gabriella Galbiati]

Sopra le linee
Avanza l’invasore
E fuoco amico
[Titti Tidone]

Nel sonno profondo urla
Ai ricordi di guerra
[Marina Nardone]

Grigi fantasmi
Svaniscono col sole
Torna la pace
[Maria Valeria Ferruzza]

In un caldo abbraccio
Gli amanti sulla spiaggia
[Elvira Acampora]

Occhi azzurri
Nel vento dell’estate
Cercano lei
[Gabriella Galbiati]

Desiderar la luna
In una notte breve
[Cristiano Sorrentino]

Tempo bastante,
Disvelamento ― donna,
Cogli l’attimo!
[Gianfranco Irlanda]

Chissà tra cinque anni!
Tu chi sarai? Dove andrò?
[Diego Rossi]

Avrà già i primi
Germogli e bianchi i rami
Rivolti al cielo
[Stefania Nardone]

Vento di primavera
Petali su petali
[Elvira Acampora]

Nidi di merli
Tra glicini in fiore
Frullano d’ali
[Titti Tidone]

Ritorna al castello
Recando un messaggio
[Marina Nardone]

E lascia il soglio
La veste bianca al vento
Il vecchio saggio
[Maria Valeria Ferruzza]

Festa a Montemarano
Il vino scorre in piazza
[Gabriella Galbiati]

Neve sui rami
Al suono di paranze
Cade al suolo
[Gianfranco Irlanda]

Le dita sporche d’olio
Un pescatore ride
[Diego Rossi]

Ultima lisca
Indugia sulla lingua
Sapor d’infanzia
[Cristiano Sorrentino]

La grigia pozzanghera
Ha ingoiato una biglia
[Stefania Nardone]

Solitario va
Con lo sguardo assente
Sotto la pioggia
[Elvira Acampora]

Il cervo nella notte
Bramisce d’amore
[Titti Tidone]

Luna crescente
In silenzio gli sguardi
Desiderosi
[Maria Valeria Ferruzza]

La lanterna illumina
Il dono del futuro
[Gabriella Galbiati]

Il cieco torna
A sera, fiducioso ―
Felice scontro
[Marina Nardone]

Il canto del Muezzin
Nel cuore del deserto
[Stefania Nardone]

Spuntano i fiori
Tra le rocce riarse
Che felicità!
[Gianfranco Irlanda]

All’alba di un nuovo
Giorno ― il cinguettio
[Elvira Acampora]

Freddo nelle ossa
Nella penombra stanca
Alberi in fiore
[Diego Rossi]

Portano gli zefiri
Un tepore inatteso
[Cristiano Sorrentino]


Intenso freddo ―
È piacevole stare
In un rifugio
[Diego Rossi]
Monji. Inverno.
Il kasen si apre un po’ in sordina. L’hokku è sicuramente molto accogliente ed esprime bene la sensazione dell’inverno ma, certo, non brilla per intensità poetica. Forse potrebbe essere definito addirittura jimon. Apre comunque con una nota positiva e gradevole. Il kigo invernale è, ovviamente, “intenso freddo”. Il toriawase è leggibile nell’opposizione tra interno ed esterno e il kireji è restituito dall’enjambement.

Le orme di una lepre
Sulla neve compatta
[Stefania Nardone]
Monji. Shin. Inverno. Animali.
Il bel waki ha un tono decisamente mon, per quanto la concretezza dell’immagine, in sé, lo renda piuttosto monji. La “neve compatta” è un kigo per l’inverno avanzato, il che specifica e allarga l’immagine dell’hokku, a cui si collega per keiki, nonché per associazione di parole (la lepre e il rifugio). Anche “lepre” (usagi, ), peraltro, è kigo invernale, forse perché è legata alla caccia. Il collegamento è molto stretto, dunque, e restituisce l’idea di un rifugio montano dove si raccoglie un gruppo di cacciatori.

Sul ramo secco
La nottola lamenta
La buia notte
[Maria Valeria Ferruzza]
Mon. Shinso. Inverno. Notte. Uccelli. Alberi.
Il daisan si collega sempre per keiki, al waki, ma lo fa in modo più lasco. Ora veniamo a sapere che è notte, e si sente il verso della nottola. Qui si deve intendere, sicuramente, la civetta, piuttosto che il pipistrello o il succiacapre (ai quali il termine pure può far riferimento: cfr. Nottola sul sito della Treccani). Fukuro (), cioè, appunto, “civetta”, “gufo”, è kigo invernale. Questo fa sì che ci sia una certa ridondanza nel ku, peraltro affascinante: da sola, la nottola basta ad indicare sia che è inverno, sia che è notte, per cui rischiano di diventare superflui tanto il “ramo secco” (altro kigo invernale), quanto la “buia notte”. Molto interessante, invece, l’allitterazione continuata, negli ultimi due versi, in “la”, “n” e “t”. Si approfondisce l’immagine dell’inverno e qui si carica di una certa suggestione, un certo yugen, non disgiunto da una nota più inquietante o, comunque, decisamente meno solare. Tuttavia l’immagine è un po’ ferma e non produce un vero allontanamento dall’hokku, né rispetta in pieno in criteri di composizione di un daisan, che dovrebbe essere molto più vago nella struttura grammaticale.

Dalle cime dei monti
Il pastore discende
[Titti Tidone]
Monji. Shinso. Zō. Montagne. Persone.
Continua il ricorso al keiki, nella descrizione di una scena di montagna che rende questo avvio molto stretto e, forse, troppo: non ci siamo ancora, fin qui, veramente allontanati dalla scena d’apertura. Questo è il problema di un ricorso reiterato al keiki. L’immagine in sé è molto piacevole, un vivido acquerello che non necessita di particolari annotazioni.

Ecco la luna
Tra le nuvole erranti
Luce diffusa
[Marina Nardone]
Mon. Shin. Autunno. Fenomeni luminosi. Tsuki no joza.
Molto bello, questo tsuki no joza, aperto da quell’“ecco” che funge efficacemente da kireji. Il collegamento è molto serrato ma, stavolta, più che continuare la scena, forma un kotobazuke, giocando sull’associazione classica tra luna e pastore, rinforzata dal rimando leopardiano al pastore “errante”, come le nuvole di questo ku (in cui si potrebbe addirittura scorgere un richiamo a un gregge di pecore, come pure appaiono, a volte, le nubi foriere di pioggia). Il verso finale, poi, è molto suggestivo, e approfondisce molto il senso di yugen dell’intero ku, cha davvero riproduce molto bene la sensibilità poetica giapponese. La “luna” è di per sé kigo autunnale.

Sotto il cielo plumbeo
Veleggiano le barche
[Gianfranco Irlanda]
Monji. Shinso. Autunno. Coste.
La scena ora si sposta sul mare, dove vediamo veleggiare le barche sotto il pesante cielo autunnale (“cielo plumbeo” è il kigo). Un altro collegamento per keiki, rinforzato dall’associazione tra il cielo plumbeo e le nuvole, e tra l’errare di queste e il veleggiare delle barche. Una bella scena autunnale, molto pulita ed efficace.

Preda del vento
D’autunno l’aquilone
Cade ferito
[Cristiano Sorrentino]
Monji. So. Autunno. Prodotti umani.
Lo shori no ura si apre con un ku molto sostenuto e molto drammatico. Abbiamo qui l’immagine vivida di un aquilone che, rotto e abbandonato in balia del vento, cade al suolo. Un’immagine molto forte e metaforica, che restituisce bene la tristezza e la solitudine dell’autunno. Il collegamento è molto so ed è affidato ad un’associazione mentale tra le vele e l’aquilone. Suggerirebbe quasi l’introduzione di un tema come il rimpianto o, anche, l’amore, ma manca qualunque riferimento più esplicito, per cui resta senza tema. Il kigo autunnale è, ovviamente, “vento d’autunno”.

Riprendendo il suo volo
Ormai è stanco e solo!
[Gabriella Galbiati]
Jimon. Shin. Zō.
Un ku non molto impegnativo, che abbassa il tono, fin qui sempre molto elevato, e funge probabilmente da perno. Il collegamento è molto stretto perché, di fatto, è un hirazuke. Tuttavia l’associazione è un po’ bizzarra, non tanto perché, dopo la caduta, si riprende il volo (il che, in sé, è abbastanza suggestivo), quanto perché non si capisce bene il senso di quello “stanco e solo”. L’assenza di un soggetto, quindi, qui crea qualche problema, perché si ricollega direttamente all’aquilone e gli attribuisce un’emotività un po’ forzata. Del resto, se l’aquilone è letto, come sembra, come un’aquila vera e propria, il senso di forzatura permane viepiù. Inoltre, l’esplicitazione di questo sentimento, che nel maeku era comunicato indirettamente, risulta un po’ ingenua.

Sopra le linee
Avanza l’invasore
E fuoco amico
[Titti Tidone]
Jimon. Shinso. Zō.
Questo ku reinterpreta il maeku come la descrizione di un soldato, sconfitto e stretto tra due fuochi. Un’immagine molto drammatica e concreta che sfrutta bene il suo maeku dando nuovo impulso all’intera sequenza. La guerra, in sé, non costituisce un tema della poesia giapponese classica, ma qui, forse, potrebbe essere letto un accenno al tema della transitorietà o dell’impermanenza.

Nel sonno profondo urla
Ai ricordi di guerra
[Marina Nardone]
Ji. Shin. Zō. Reminiscenza. Sogno.
La situazione descritta nel maeku, qui è reinterpretata come l’incubo di un vecchio militare che, nel sonno, rivive tutto l’orrore della guerra, in un ku squisitamente ji che, molto efficacemente, estrapola quell’accenno alla transitorietà introducendo il tema della reminiscenza. Pur non comparendo esplicitamente la parola “sogno”, sembra più opportuno considerarla come di fatto presente, nel sinonimo di “sonno”, per evitare un possibile torinne.

Grigi fantasmi
Svaniscono col sole
Torna la pace
[Maria Valeria Ferruzza]
Jimon. Shin. Zō. Sole.
I “fantasmi”, che qui stanno per “brutti ricordi”, evidentemente, svaniscono al risveglio. Si tratta di uno shinku a tutti gli effetti, sia perché continua di fatto la descrizione del maeku, sia perché pace si oppone a guerra. C’è quindi un rischio di uchikoshi no kirai, dovuto alla stretta adiacenza tra uchikoshi, maeku e tsukeku. Anche il ricorso al “sole”, forse, sarebbe stato da evitare, perché troppo immediatamente legato al tema del sonno. Tuttavia, queste sono sottigliezze che forse non è il caso di considerare, qui.

In un caldo abbraccio
Gli amanti sulla spiaggia
[Elvira Acampora]
Ji. So. Estate. Coste. Persone.
Questo ku è molto distante dal precedente, per quanto il collegamento sia evidente, perché non c’è nessun riferimento esplicito alle parole del maeku. Tuttavia, decostruisce molto bene la sequenza precedente, allontanandosi molto dal tema dell’uchikoshi. Qui, sotto il sole, la pace torna tra due amanti che, evidentemente, avevano litigato. Non si può definire un ku sull’amore, perché qui manca il desiderio: piuttosto, si tratta di una descrizione molto concreta di una tipica scena estiva. Tuttavia, c’è qualche difficoltà ad accogliere senza riserve questo come un ku estivo, perché “caldo” (che normalmente sarebbe kigo estivo) qui è aggettivo di “abbraccio”, mentre “spiaggia”, da sola, non dovrebbe costituire kigo. Tuttavia, la spiaggia è, almeno in Italia, così immediatamente associata alle vacanze estive che probabilmente è possibile accoglierlo come kigo.

Occhi azzurri
Nel vento dell’estate
Cercano lei
[Gabriella Galbiati]
Jimon. So. Estate. Amore.
Qui è introdotto effettivamente il tema dell’amore, perché ora vi è una ricerca, quindi un desiderio. “Nel vento dell’estate”, oltre a costituire kigo, contribuisce ad elevare il tono di questo ku che è, di per sé, molto ji. L’azzurro degli occhi, in relazione col vento estivo, sembra inoltre evocare l’immagine del cielo limpido. Tuttavia la scena descritta è molto vaga, pur essendo un “primissimo piano”; anzi, l’attenzione al dettaglio, qui, taglia via del tutto l’ambiente e, per questo, forse, l’introduzione del kigo risulta un po’ forzata. Il collegamento, invece, è incerto: se si deve supporre un keiki, che sembra l’unico possibile aggancio al maeku, diventa difficile comprendere quel “cercano lei” finale. Ne risulta quindi, un collegamento molto lasco, dovuto però più all’indecisione che non a una scelta, evidentemente.

Desiderar la luna
In una notte breve
[Cristiano Sorrentino]
Mon. Soshin. Estate. Amore. Fenomeni luminosi. Notte. Tsuki no joza.
Si tratta di un collegamento molto prezioso, per quanto lasco: un nioizuke che reinterpreta quel “cercano lei” in una chiave morbidamente erotica. Forse può essere definito anche uno shinsoku. Il risultato è un monku molto ricco e raffinato, approfondito dal verbo all’infinito. La luna compare in almeno due significati, poiché se, da un lato, indica la luna estiva, probabilmente non ancora sorta o, anche, già evanescente nelle prime luci dell’alba, d’altro canto quel “desiderar la luna” può suggerire l’idea di un desiderio irrealizzabile e, forse, la risposta della donna amata che non vuol concedersi. Ma può anche, semplicemente, suggerire un’idealizzazione dell’amata (o dell’amato), in una fugace e solitaria notte estiva. “Notte breve”, infatti, oltre a costituire kigo di inizio estate, comunica un senso di fugacità molto forte e, dunque, il desiderio si carica di amarezza e di ansia per il tempo che scorre ma anche, eventualmente, per il ricordo di un amore estivo, svanito anzitempo. Ne risulta, quindi, un ku molto allusivo e, in questo senso, molto giapponese, nello stile, in cui ogni parola è carica di una notevole pluralità semantica (si noti, anche, come può cambiare radicalmente il suo senso generale se è letto in connessione col maeku o con lo tsukeku). Resta, peraltro, uno tsuki no joza sui generis, proprio perché la luna non è chiaramente “visibile” come tale e, anzi, quel “desiderar la luna” ne suggerisce più la mancanza che non la presenza.

Tempo bastante,
Disvelamento ― donna,
Cogli l’attimo!
[Gianfranco Irlanda]
Ji. Shinso. Zō. Amore. Donna.
Forse questo ku illustra bene il senso del tradizionale divieto di ricorrere al termine “donna”, che qui risulta molto, forse troppo, forte. Quasi volgare. In ogni caso si tratta di un jiku che esplicita uno dei sensi presenti nel maeku, rischiando di appiattirlo molto. Il linguaggio è quasi violento, con l’imperativo finale che sembra essere più una minaccia che un’esortazione. Non manca una certa autoironia, e un certo gusto haikai, per cui il “tempo bastante”, direttamente collegato alla breve notte del maeku, suggerisce l’idea di una sveltina, il che rende il ricorso ad un termine decisamente sostenuto, come “disvelamento”, quasi ridicolo. Il rischio, però, è un eccessivo scadimento di tono che lacera, di fatto, il tessuto della sequenza, tanto più che i doppi sensi, qui, finiscono con l’essere davvero volgari.

Chissà tra cinque anni!
Tu chi sarai? Dove andrò?
[Diego Rossi]
Ji. Shinso. Zō. Amore. Impermanenza.
Questo jiku tenta di riannodare i fili del kasen con un uzumiku che vorrebbe “condannare” la violenza percepita nel maeku. Il “collegamento sepolto” fa, infatti, esplicito riferimento alla Canzone del riformatorio, dei Baustelle, che narra di un’adolescente finito in riformatorio, appunto, per aver commesso una violenza carnale («E dolcemente ti ho regalato / la mia violenza, il mio attimo di gloria»). I versi ai quali il ku fa riferimento, quasi citandoli, sono i seguenti: «Amore, fra cinque anni dove andrò? / E tu chi sarai e chi saremo / Fuori dal riformatorio?». Tuttavia non è detto che il tentativo sia riuscito e il patetismo dei versi, in questo contesto, risulta quasi fastidioso. Il tema dell’amore è presente solo in riferimento al maeku e alla canzone che è richiamata. Più che d’amore, però, in questo caso si tratta del tema dell’impermanenza, a causa del forte senso dello scorrere del tempo e del mutare delle persone.

Avrà già i primi
Germogli e bianchi i rami
Rivolti al cielo
[Stefania Nardone]
Monji. Soshin. Primavera. Alberi.
Questo bel ku si collega molto efficacemente al tempo futuro del maeku, dal quale per il resto si distacca completamente, introducendo un’immagine primaverile (“primi germogli” è il kigo). In questo modo, la domanda posta nel maeku sembra trovare qui una concretizzazione, diventando quasi un nostalgico ricordo di casa. Si potrebbe scorgere, in questo senso, un’introduzione del tema del rimpianto o della rimemorazione. Tuttavia, si tratta di un accenno troppo lieve per parlare di tema. Il tono, molto mon, è leggermente abbassato dalla struttura sintattica, molto definita.

Vento di primavera
Petali su petali
[Elvira Acampora]
Mon. Shinso. Primavera. Alberi. Hana no joza.
Un buon hana no joza che si collega direttamente all’immagine del maeku, spostandola però dall’inizio della primavera (“i primi germogli”) alla primavera avanzata (“petali su petali”). Il collegamento, peraltro, avviene per honga, nell’implicita allusione ad un haiku di Masaoka Shiki. Il “vento di primavera” è un altro kigo, un po’ ingiustificato, dal momento che non occorreva esplicitare la stagione. Tuttavia, nel complesso, questo monku è molto bello e delicato.

Nidi di merli
Tra glicini in fiore
Frullano d’ali
[Titti Tidone]
Mon. So. Primavera. Fiori. Uccelli.
Anche qui compaiono due kigo: i “nidi”, infatti, sono sempre kigo primaverili, così come i “glicini in fiore”, che indicano la tarda primavera. Un’altra bella immagine della primavera, molto vagamente collegata, per yosei, a quella del maeku. “Frullano d’ali”, riferito ai nidi, è davvero una bella trovata, molto efficace. I merli, peraltro, nidificano un po’ ovunque, per cui è molto credibile la scena qui descritta.

Ritorna al castello
Recando un messaggio
[Marina Nardone]
Ji. Shinso. Zō. Villaggi.
Un collegamento molto efficace che sfrutta i “merli” del maeku per reinterpretarli come la merlatura di un castello, profilatosi in lontananza. La scena muta completamente ma è possibile cogliere, volendo, anche un honga, perché sembra abbastanza forte il richiamo al «Re Carlo» di Fabrizio De Andrè, che «tornava dalla guerra», «tra i glicini e il sambuco». Adesso è introdotta un’immagine vivida, molto narrativa (dunque, anche, molto ji), che offre la possibilità di variare e drammatizzare molto la successiva dinamica del kasen.

E lascia il soglio
La veste bianca al vento
Il vecchio saggio
[Maria Valeria Ferruzza]
Jimon. Soshin. Zō. Religione. Vestiti.
Il quadretto vivido del maeku è subito sfruttato per introdurre un’altra figura molto concreta, che fa evidentemente riferimento alle dimissioni del papa. Il tema è dunque religioso. L’assenza di un più esplicito riferimento, comunque, rende possibile cogliere, in questo ku, tanto un fatto di attualità quanto un’omokagezuke, nel rimando alla storia medievale (suggerito proprio dal maeku) e, dunque, a “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, Celestino V, il quale fu imprigionato nel 1295 nel castello di Fumone. Un passaggio molto felice di questo kasen anche se, forse, c’è una certa stonatura nell’immagine plastica della “veste bianca al vento” che aumenta leggermente il tono del ku ma rischia di apparire un po’ fuori luogo.

Festa a Montemarano
Il vino scorre in piazza
[Gabriella Galbiati]
Ji. Soshin. Inverno. Religione. Villaggi. Prodotti umani. Luoghi.
Questo tsukeku coglie bene l’aspetto figurativo del maeku e propone una scena carnascialesca, in cui il “vecchio saggio” con la “veste bianca” è reinterpretato come una maschera in una sfilata e potrebbe addirittura essere visto come un mago o un personaggio fantasy. Per la prima volta viene introdotto in questo kasen un luogo specifico, Montemarano, famoso per la tarantella montemaranese e per il carnevale: pertanto, “Festa a Montemarano” è un buon kigo invernale, poiché per l’appunto individua la festa di carnevale. Questo fa sì che sia mantenuto il tema religioso poiché, per quanto il carnevale non è considerabile come una festa cattolica, cionondimeno è legato al calendario liturgico, oltre ad essere una sopravvivenza di culti pagani. “Il vino scorre in piazza” è una frase un po’ scontata che, tra l’altro, reintroduce la categoria lessicale dei villaggi, presente nell’uchikoshi. A parte questo piccolo neo, si tratta di un jiku molto efficace, che contribuisce a un buon andamento del nagori no omote. Davvero in questi ultimi ku si può avvertire un’intensificazione del dinamismo compositivo molto gradevole, che sembra sviluppare in un arrangiamento jazz i diversi “motivi”.

Neve sui rami
Al suono di paranze
Cade al suolo
[Gianfranco Irlanda]
Monji. Shinso. Inverno. Alberi.
Segue quindi una scena molto mon, per quanto legata evidentemente alla situazione del maeku, con l’immagine vivida delle paranze di una festa di paese. Il cadere della neve (ovviamente, kigo invernale) dai rami restituisce molto bene la sensazione del chiasso e dello stordimento di una paranza o di una banda musicale. Un altro passaggio molto efficace.

Le dita sporche d’olio
Un pescatore ride
[Diego Rossi]
Ji. Soshin. Zō. Persone.
Collegandosi per kotobazuke direttamente alle “paranze”, reinterpretate qui come una frittura di pesce, questo jiku dal gusto molto bozzettistico cambia completamente scena, introducendo il ritratto di un pescatore “ripreso” mentre sta mangiando da un cartoccio. Continua questo momento molto “agitato” del kasen, in una sequenza quasi caleidoscopica di immagini molto semplici e realistiche, che risponde molto bene al principio del karumi, semplicità e freschezza, proprio del gusto haikai.

Ultima lisca
Indugia sulla lingua
Sapor d’infanzia
[Cristiano Sorrentino]
Jimon. Shinso. Zō. Rimemorazione.
Qui il tema del ricordo è evidente e il gusto agrodolce, il wabi-sabi, che permea questo ku, si sposa bene con il suo maeku, conferendo una maggiore profondità all’intero movimento. La risata del pescatore si vela, così, di una nota di amarezza, nell’indugiare su quell’ultima lisca che rievoca la propria infanzia. Ne emerge così un tema particolarmente toccante e, davvero, profondamente haikai: nella fantasmagoria di immagini, suoni, eventi, ecco che, improvvisa, emerge la consapevolezza amara dell’inaggirabilità del tempo e della fugacità della vita. Davvero un momento, questo, di alta poesia. Un perfetto “gioco di squadra”, per così dire.

La grigia pozzanghera
Ha ingoiato una biglia
[Stefania Nardone]
Ji. So. Zō. Prodotti umani.
Qui c’è un nioizuke molto vago. Si potrebbe ancora parlare di rimemorazione solo in virtù del rimando al maeku. Il senso di questo ku, ad ogni modo, è chiaro: descrive, ora, in un flashback, direttamente la scena ricordata ― quella biglia finita in una pozzanghera. Metaforicamente, inoltre, la biglia (che si ricollega esplicitamente alla “infanzia” presente nel maeku) simboleggia un ricordo perduto nella “grigia pozzanghera” dell’inconscio. Anche l’immagine dell’ingoiare, ovviamente, contribuisce alla riuscita del collegamento. Si avverte, in ogni caso, una certa indecisione nel procedere: è come se, ora, quell’indugiare espresso nel ku precedente affiorasse anche sul piano compositivo. In tal senso, questo ku si presenta come una sottolineatura efficace, quasi una sospensione che rafforza la nota grave del maeku.

Solitario va
Con lo sguardo assente
Sotto la pioggia
[Elvira Acampora]
Jimon. So. Zō. Fenomeni di precipitazione. Persone.
Questo passaggio è davvero molto cinematografico. Il collegamento, decisamente so, è per associazione d’immagini (kokorozuke) ma, forse, esprime un ottimo nioizuke. Molto gradevole: il primissimo piano della biglia ora sfuma, per così dire, e gli si sovrappone l’immagine di un uomo solitario che si allontana nella pioggia, quasi in un flashback alla Leone. Il fatto che sia in terza persona, molto descrittivo e con elementi naturalistici, aumenta il tono di questo jiku, rendendolo jimon, se non monji. Si comincia ad avvertire un nuovo crescendo, che dovrebbe raggiungere l’acme alla fine del nagori no omote.

Il cervo nella notte
Bramisce d’amore
[Titti Tidone]
Mon. Shinso. Autunno. Amore. Animali.
Qui il personaggio del maeku è reinterpretato come un cervo solitario che bramisce nella notte. Un’immagine molto efficace, che esplicita, tra l’altro, un sentimento presente nella figura solitaria del ku precedente, introducendo così il tema dell’amore. Il collegamento è molto stretto, per quanto decontestualizzi i versi del maeku, sia perché può essere un hirazuke, sia perché il cervo può essere letto come una metafora dell’uomo solo e innamorato. “Cervo” è anche un ottimo kigo autunnale, così come lo è, a maggior ragione, il suo bramito. Il risultato è un ku molto suggestivo ed allusivo, che restituisce bene il lirismo giapponese.

Luna crescente
In silenzio gli sguardi
Desiderosi
[Maria Valeria Ferruzza]
Monji. Shinso. Autunno. Amore. Fenomeni luminosi. Tsuki no joza.
“Luna crescente” (gengetsu, 弦月) è kigo autunnale, oltre a connotare, ovviamente, questo ku come uno tsuki no joza. Efficace il senso di tensione erotica crescente comunicato da questo semplice rimando alla luna. Tuttavia la scena descritta rischia di essere un po’ troppo concreta per potersi definire un mon e fa perdere un po’ di efficacia all’elevatezza lirica conferita dalla posizione della luna. “Gli sguardi”, inoltre, richiamano troppo “lo sguardo assente” dell’uchikoshi, a formare quindi un kannonbiraki. Resta comunque, in sé, un bel ku, molto sostenuto, che ha tutte le caratteristiche di un haiku ‒ e forse è proprio questo che lo rende poco intrecciato al tessuto complessivo, nonostante il collegamento molto stretto nel rimando esplicito al desiderio amoroso.

La lanterna illumina
Il dono del futuro
[Gabriella Galbiati]
Ji. Shinso. Autunno. Amore. Religione. Fenomeni luminosi. Prodotti umani.
Il nagori no omote si chiude con un’improvvisa caduta di tono. La “luna crescente” evoca direttamente la “lanterna” illuminata, che funge da kigo autunnale. Questo ku ha una duplice valenza e, in questo, è davvero molto giapponese: da un lato, infatti, tanto la lanterna quanto il “dono del futuro” possono essere interpretati come una celebrazione buddhista ‒ il festival delle lanterne (tooroo nagashi, 燈籠流), in cui le lanterne che sono lasciate scorrere su un fiume come dono ai defunti, rappresentano le anime dei trapassati; d’altro canto, però, soprattutto in riferimento al maeku, è possibile leggere la lanterna come una “lanterna rossa” (in riferimento al famoso film di Zhang Yimou) e dunque interpretare il ku come un riferimento all’atto del concepimento di un figlio (il “dono del futuro”). Quindi, si può dire che questo ku introduca tanto il tema religioso quanto che continui il tema dell’amore. Il tono è molto ji soprattutto per il linguaggio, molto piatto perché si tratta di una frase semplice e lineare, nonché per la concretezza dell’immagine. Ma la ricchezza semantica è, nondimeno, notevole.

Il cieco torna
A sera, fiducioso ―
Felice scontro
[Marina Nardone]
Jimon. Shin. Zō. Religione. Sera. Persone.
Questo tsukeku si ricollega al maeku, direttamente, attraverso l’accostamento tra la lanterna e la vista (il lume) e gioca sul senso dell’illuminazione zen, come evento improvviso in cui ci s’imbatte. In realtà, qui c’è un forte uzumiku, che si richiama ad un aneddoto zen: ad un vecchio cieco, nel tornare a casa di notte, fu affidata una lanterna, per evitare che gli altri, non vedendolo, potessero urtarlo. Così, abituato a muoversi senza vedere, s’incamminò fiducioso quando, all’improvviso, un uomo lo urtò con violenza. Arrabbiandosi, il vecchio esclamò “non hai visto la luce della lanterna?”. Al che l’altro rispose: “Vecchio, la tua lanterna è spenta!”. Naturalmente, questa storia è una metafora dell’inutilità di un possesso concettuale dell’illuminazione (zen) che non sia interiorizzata. Si tratta quindi di un collegamento molto prezioso e raffinato, oltre che strettissimo (perché gioca, tra l’altro sul doppio significato di “illuminazione” e di “dono”). La tenuta narrativa rende il ku piuttosto ji ma non manca una struttura sintattica che gli conferisce un certo tono mon, con un buon toriawase, sostenuto dalla descrizione in terza persona. L’ironia, inoltre, che emana da questa storia, ha davvero tutto il gusto dell’haikai e del wabi-sabi.

Il canto del Muezzin
Nel cuore del deserto
[Stefania Nardone]
Monji. So. Zō. Religione. Persone.
Il collegamento di questo tsukeku è un puro sōtai. Per suggestione, ad una forma di illuminazione (zen) fa da contrappunto un altro tipo di illuminazione (islamica). E all’irraggiamento di quella luce è paragonato lo spandersi della voce del Muezzin che guida il popolo nel cuore del deserto. Una bella immagine, che cambia radicalmente prospettiva e contesto (anche geografico). Naturalmente, qui il tema religioso è preponderante. Lo yugen è molto profondo e suggestivo: un bel colpo di pennello che suggerisce molto efficacemente un intero mondo, quello musulmano e mediorientale.

Spuntano i fiori
Tra le rocce riarse
Che felicità!
[Gianfranco Irlanda]
Monji. Shinso. Primavera. Fiori.
I fiori sono introdotti in riferimento alle rocce riarse di un deserto. È un ku molto naif e ottimistico, di speranza, in cui si percepisce, anche nel “cuore del deserto”, la possibilità di un rinnovamento della vita. Il “che felicità!” dell’ultimo verso può essere considerato un kireji e fornisce un buon toriawase alla struttura del ku, per quanto, forse, comunichi troppo esplicitamente il sentimento di speranza espresso dall’immagine dei fiori, abbassando quindi, forse involontariamente, il tono.

All’alba di un nuovo
Giorno ― il cinguettio
[Elvira Acampora]
Monji. So. Primavera. Alba. Uccelli.
Il collegamento con il maeku è affidato ad una suggestione molto vaga, che fa riferimento ad un comune sentimento di speranza ‒ il “nuovo giorno”. Il “cinguettio” è un bel kigo primaverile che, tra l’altro, contribuisce a restituire questo piacevole sentimento di buonumore.

Freddo nelle ossa
Nella penombra stanca
Alberi in fiore
[Diego Rossi]
Monji. Shin. Primavera. Alberi. Hana no joza.
Per evitare di indugiare troppo a lungo sull’ottimismo espresso nell’uchikoshi, questo ku si collega direttamente all’immagine del maeku, ipotizzando una notte trascorsa senza sonno. Il “freddo nelle ossa” qui, fa riferimento, ovviamente, all’ora del giorno, per quanto sia kigo invernale. Ma “alberi in fiore” è un kigo decisamente primaverile e, quindi, ha la preminenza. Ne vien fuori un hana no joza piuttosto sotto tono, per quanto comunichi, nondimeno, un certo yugen e una sensazione di rilassatezza, offrendosi quindi come spalla all’ageku.

Portano gli zefiri
Un tepore inatteso
[Cristiano Sorrentino]
Mon. Soshin. Primavera.
Un ageku molto bello e suggestivo che, al “freddo delle ossa”, risponde con un “tepore inatteso”, concludendo quindi con una nota molto positiva. Gli zefiri sono, ovviamente, kigo primaverile. Potrebbero, volendo, essere letti come complemento oggetto, legandosi per hirazuke al verso precedente, il che rende più stretto il collegamento. L’indefinitezza dell’ora, qui, mentre contribuisce ad allontanarsi dall’uchikoshi, serve a chiudere l’intero kasen, avvolgendolo in un bel clima, gradevole e sfumato. La giusta chiosa a questo componimento.

Kaze ni Kasen (風に歌仙) esprime bene lo spirito di questo “kasen al vento”, che sembra ondeggiare e lasciarsi trasportare dolcemente dai venti che compaiono in diversi momenti chiave di questa sequenza. Un renku molto armonioso, gradevole anche ad una lettura superficiale: l’haikai dovrebbe proprio sembrare fresco e vivace, ad una prima occhiata, per rivelarsi ricco di contenuti ed allusioni quando lo si osservi da vicino. In questo senso, il kasen è riuscitissimo. Alcune sbavature, alcuni piccoli errori, pur presenti, non guastano, anzi sembrano arricchirlo, rendendolo più genuino e poco artefatto. Soprattutto, è molto piacevole la sensazione che non ci sia nessuna forzatura o ricercatezza eccessive: i singoli ku emergono naturalmente l’uno dall’altro, ora avvicinandosi ora allontanandosi dolcemente, proprio come canne al vento, e restituiscono così un quadro d’insieme davvero armonico, dove l’alternarsi delle stagioni restituisce bene il senso del fluire del tempo, la vita nelle sue mille sfaccettature. La pluralità di voci, anziché impossibilitare la riuscita della sequenza, sembra un valore aggiunto, poiché, nonostante certe discrepanze, anche consistenti, nello stile e nel gusto, non ci sono mai dei veri e propri attriti né vere stonature. Sicuramente non potrà paragonarsi a un raffinato kasen del periodo di Edo, nondimeno il lavoro è notevole e il risultato finale, tutto sommato, è molto positivo.

Ogata Gekko - Shika (Cervi)


2 commenti:

  1. mamma mia, che faticaccia, che ho fatto... ne valeva la pena però. no? :)

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  2. ma come è piacevole rileggere con più attenzione i nostri lavori!
    Elvira

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