Intenso freddo ―
È piacevole stare
In un rifugio
[Diego Rossi]
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Monji. Inverno.
Il kasen si apre un po’ in sordina. L’hokku è sicuramente
molto accogliente ed esprime bene la sensazione dell’inverno ma, certo, non
brilla per intensità poetica. Forse potrebbe essere definito addirittura
jimon. Apre comunque con una nota positiva e gradevole. Il kigo invernale è,
ovviamente, “intenso freddo”. Il toriawase è leggibile nell’opposizione tra
interno ed esterno e il kireji è restituito dall’enjambement.
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Le orme di una lepre
Sulla neve compatta
[Stefania
Nardone]
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Monji. Shin. Inverno. Animali.
Il bel waki ha un tono decisamente mon, per quanto la
concretezza dell’immagine, in sé, lo renda piuttosto monji. La “neve
compatta” è un kigo per l’inverno avanzato, il che specifica e allarga
l’immagine dell’hokku, a cui si collega per keiki, nonché per associazione di
parole (la lepre e il rifugio). Anche “lepre” (usagi, 兎), peraltro, è kigo invernale, forse
perché è legata alla caccia. Il collegamento è molto stretto, dunque, e
restituisce l’idea di un rifugio montano dove si raccoglie un gruppo di
cacciatori.
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Sul ramo secco
La nottola lamenta
La buia notte
[Maria Valeria
Ferruzza]
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Mon. Shinso. Inverno. Notte.
Uccelli. Alberi.
Il daisan si collega sempre per keiki, al waki, ma lo fa
in modo più lasco. Ora veniamo a sapere che è notte, e si sente il verso
della nottola. Qui si deve intendere, sicuramente, la civetta, piuttosto che
il pipistrello o il succiacapre (ai quali il termine pure può far
riferimento: cfr. Nottola sul sito della Treccani). Fukuro (梟), cioè,
appunto, “civetta”, “gufo”, è kigo invernale. Questo fa sì che ci sia una
certa ridondanza nel ku, peraltro affascinante: da sola, la nottola basta ad
indicare sia che è inverno, sia che è notte, per cui rischiano di diventare
superflui tanto il “ramo secco” (altro kigo invernale), quanto la “buia
notte”. Molto interessante, invece, l’allitterazione continuata, negli ultimi
due versi, in “la”, “n” e “t”. Si approfondisce l’immagine dell’inverno e qui
si carica di una certa suggestione, un certo yugen, non disgiunto da una nota
più inquietante o, comunque, decisamente meno solare. Tuttavia l’immagine è
un po’ ferma e non produce un vero allontanamento dall’hokku, né rispetta in
pieno in criteri di composizione di un daisan, che dovrebbe essere molto più
vago nella struttura grammaticale.
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Dalle cime dei monti
Il pastore discende
[Titti Tidone]
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Monji. Shinso. Zō. Montagne.
Persone.
Continua il ricorso al keiki, nella descrizione di una
scena di montagna che rende questo avvio molto stretto e, forse, troppo: non
ci siamo ancora, fin qui, veramente allontanati dalla scena d’apertura.
Questo è il problema di un ricorso reiterato al keiki. L’immagine in sé è
molto piacevole, un vivido acquerello che non necessita di particolari
annotazioni.
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Ecco la luna
Tra le nuvole erranti
Luce diffusa
[Marina Nardone]
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Mon. Shin. Autunno. Fenomeni
luminosi. Tsuki no joza.
Molto bello, questo tsuki no joza, aperto da quell’“ecco”
che funge efficacemente da kireji. Il collegamento è molto serrato ma,
stavolta, più che continuare la scena, forma un kotobazuke, giocando
sull’associazione classica tra luna e pastore, rinforzata dal rimando
leopardiano al pastore “errante”, come le nuvole di questo ku (in cui si
potrebbe addirittura scorgere un richiamo a un gregge di pecore, come pure
appaiono, a volte, le nubi foriere di pioggia). Il verso finale, poi, è molto
suggestivo, e approfondisce molto il senso di yugen dell’intero ku, cha
davvero riproduce molto bene la sensibilità poetica giapponese. La “luna” è
di per sé kigo autunnale.
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Sotto il cielo plumbeo
Veleggiano le barche
[Gianfranco
Irlanda]
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Monji. Shinso. Autunno. Coste.
La scena ora si sposta sul mare, dove vediamo veleggiare
le barche sotto il pesante cielo autunnale (“cielo plumbeo” è il kigo). Un
altro collegamento per keiki, rinforzato dall’associazione tra il cielo
plumbeo e le nuvole, e tra l’errare di queste e il veleggiare delle barche.
Una bella scena autunnale, molto pulita ed efficace.
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Preda del vento
D’autunno l’aquilone
Cade ferito
[Cristiano
Sorrentino]
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Monji. So. Autunno. Prodotti
umani.
Lo shori no ura si apre con un ku molto sostenuto e molto
drammatico. Abbiamo qui l’immagine vivida di un aquilone che, rotto e
abbandonato in balia del vento, cade al suolo. Un’immagine molto forte e
metaforica, che restituisce bene la tristezza e la solitudine dell’autunno.
Il collegamento è molto so ed è affidato ad un’associazione mentale tra le
vele e l’aquilone. Suggerirebbe quasi l’introduzione di un tema come il
rimpianto o, anche, l’amore, ma manca qualunque riferimento più esplicito,
per cui resta senza tema. Il kigo autunnale è, ovviamente, “vento d’autunno”.
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Riprendendo il suo volo
Ormai è stanco e solo!
[Gabriella
Galbiati]
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Jimon. Shin. Zō.
Un ku non molto impegnativo, che abbassa il tono, fin qui
sempre molto elevato, e funge probabilmente da perno. Il collegamento è molto
stretto perché, di fatto, è un hirazuke. Tuttavia l’associazione è un po’
bizzarra, non tanto perché, dopo la caduta, si riprende il volo (il che, in
sé, è abbastanza suggestivo), quanto perché non si capisce bene il senso di
quello “stanco e solo”. L’assenza di un soggetto, quindi, qui crea qualche
problema, perché si ricollega direttamente all’aquilone e gli attribuisce
un’emotività un po’ forzata. Del resto, se l’aquilone è letto, come sembra,
come un’aquila vera e propria, il senso di forzatura permane viepiù. Inoltre,
l’esplicitazione di questo sentimento, che nel maeku era comunicato
indirettamente, risulta un po’ ingenua.
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Sopra le linee
Avanza l’invasore
E fuoco amico
[Titti Tidone]
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Jimon. Shinso. Zō.
Questo ku reinterpreta il maeku come la descrizione di un
soldato, sconfitto e stretto tra due fuochi. Un’immagine molto drammatica e
concreta che sfrutta bene il suo maeku dando nuovo impulso all’intera
sequenza. La guerra, in sé, non costituisce un tema della poesia giapponese
classica, ma qui, forse, potrebbe essere letto un accenno al tema della
transitorietà o dell’impermanenza.
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Nel sonno profondo urla
Ai ricordi di guerra
[Marina Nardone]
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Ji. Shin. Zō. Reminiscenza. Sogno.
La situazione descritta nel maeku, qui è reinterpretata
come l’incubo di un vecchio militare che, nel sonno, rivive tutto l’orrore
della guerra, in un ku squisitamente ji che, molto efficacemente, estrapola
quell’accenno alla transitorietà introducendo il tema della reminiscenza. Pur
non comparendo esplicitamente la parola “sogno”, sembra più opportuno
considerarla come di fatto presente, nel sinonimo di “sonno”, per evitare un
possibile torinne.
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Grigi fantasmi
Svaniscono col sole
Torna la pace
[Maria Valeria
Ferruzza]
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Jimon. Shin. Zō. Sole.
I “fantasmi”, che qui stanno per “brutti ricordi”,
evidentemente, svaniscono al risveglio. Si tratta di uno shinku a tutti gli
effetti, sia perché continua di fatto la descrizione del maeku, sia perché pace
si oppone a guerra. C’è quindi un rischio di uchikoshi no kirai, dovuto alla
stretta adiacenza tra uchikoshi, maeku e tsukeku. Anche il ricorso al “sole”,
forse, sarebbe stato da evitare, perché troppo immediatamente legato al tema
del sonno. Tuttavia, queste sono sottigliezze che forse non è il caso di
considerare, qui.
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In un caldo abbraccio
Gli amanti sulla spiaggia
[Elvira
Acampora]
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Ji. So. Estate. Coste. Persone.
Questo ku è molto distante dal precedente, per quanto il
collegamento sia evidente, perché non c’è nessun riferimento esplicito alle
parole del maeku. Tuttavia, decostruisce molto bene la sequenza precedente,
allontanandosi molto dal tema dell’uchikoshi. Qui, sotto il sole, la pace
torna tra due amanti che, evidentemente, avevano litigato. Non si può
definire un ku sull’amore, perché qui manca il desiderio: piuttosto, si
tratta di una descrizione molto concreta di una tipica scena estiva.
Tuttavia, c’è qualche difficoltà ad accogliere senza riserve questo come un
ku estivo, perché “caldo” (che normalmente sarebbe kigo estivo) qui è
aggettivo di “abbraccio”, mentre “spiaggia”, da sola, non dovrebbe costituire
kigo. Tuttavia, la spiaggia è, almeno in Italia, così immediatamente
associata alle vacanze estive che probabilmente è possibile accoglierlo come
kigo.
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Occhi azzurri
Nel vento dell’estate
Cercano lei
[Gabriella
Galbiati]
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Jimon. So. Estate. Amore.
Qui è introdotto effettivamente il tema dell’amore, perché
ora vi è una ricerca, quindi un desiderio. “Nel vento dell’estate”, oltre a
costituire kigo, contribuisce ad elevare il tono di questo ku che è, di per
sé, molto ji. L’azzurro degli occhi, in relazione col vento estivo, sembra
inoltre evocare l’immagine del cielo limpido. Tuttavia la scena descritta è
molto vaga, pur essendo un “primissimo piano”; anzi, l’attenzione al
dettaglio, qui, taglia via del tutto l’ambiente e, per questo, forse,
l’introduzione del kigo risulta un po’ forzata. Il collegamento, invece, è
incerto: se si deve supporre un keiki, che sembra l’unico possibile aggancio
al maeku, diventa difficile comprendere quel “cercano lei” finale. Ne risulta
quindi, un collegamento molto lasco, dovuto però più all’indecisione che non
a una scelta, evidentemente.
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Desiderar la luna
In una notte breve
[Cristiano
Sorrentino]
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Mon. Soshin. Estate. Amore.
Fenomeni luminosi. Notte. Tsuki no joza.
Si tratta di un collegamento molto prezioso, per quanto
lasco: un nioizuke che reinterpreta quel “cercano lei” in una chiave
morbidamente erotica. Forse può essere definito anche uno shinsoku. Il
risultato è un monku molto ricco e raffinato, approfondito dal verbo
all’infinito. La luna compare in almeno due significati, poiché se, da un
lato, indica la luna estiva, probabilmente non ancora sorta o, anche, già
evanescente nelle prime luci dell’alba, d’altro canto quel “desiderar la
luna” può suggerire l’idea di un desiderio irrealizzabile e, forse, la
risposta della donna amata che non vuol concedersi. Ma può anche,
semplicemente, suggerire un’idealizzazione dell’amata (o dell’amato), in una
fugace e solitaria notte estiva. “Notte breve”, infatti, oltre a costituire
kigo di inizio estate, comunica un senso di fugacità molto forte e, dunque,
il desiderio si carica di amarezza e di ansia per il tempo che scorre ma
anche, eventualmente, per il ricordo di un amore estivo, svanito anzitempo.
Ne risulta, quindi, un ku molto allusivo e, in questo senso, molto
giapponese, nello stile, in cui ogni parola è carica di una notevole
pluralità semantica (si noti, anche, come può cambiare radicalmente il suo
senso generale se è letto in connessione col maeku o con lo tsukeku). Resta,
peraltro, uno tsuki no joza sui generis,
proprio perché la luna non è chiaramente “visibile” come tale e, anzi, quel
“desiderar la luna” ne suggerisce più la mancanza che non la presenza.
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Tempo bastante,
Disvelamento ― donna,
Cogli l’attimo!
[Gianfranco
Irlanda]
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Ji. Shinso. Zō. Amore. Donna.
Forse questo ku illustra bene il senso del tradizionale
divieto di ricorrere al termine “donna”, che qui risulta molto, forse troppo,
forte. Quasi volgare. In ogni caso si tratta di un jiku che esplicita uno dei
sensi presenti nel maeku, rischiando di appiattirlo molto. Il linguaggio è
quasi violento, con l’imperativo finale che sembra essere più una minaccia
che un’esortazione. Non manca una certa autoironia, e un certo gusto haikai,
per cui il “tempo bastante”, direttamente collegato alla breve notte del
maeku, suggerisce l’idea di una sveltina, il che rende il ricorso ad un
termine decisamente sostenuto, come “disvelamento”, quasi ridicolo. Il
rischio, però, è un eccessivo scadimento di tono che lacera, di fatto, il
tessuto della sequenza, tanto più che i doppi sensi, qui, finiscono con
l’essere davvero volgari.
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Chissà tra cinque anni!
Tu chi sarai? Dove andrò?
[Diego Rossi]
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Ji. Shinso. Zō. Amore.
Impermanenza.
Questo jiku tenta di riannodare i fili del kasen con un
uzumiku che vorrebbe “condannare” la violenza percepita nel maeku. Il
“collegamento sepolto” fa, infatti, esplicito riferimento alla Canzone del riformatorio, dei
Baustelle, che narra di un’adolescente finito in riformatorio, appunto, per
aver commesso una violenza carnale («E dolcemente ti ho regalato / la
mia violenza, il mio attimo di gloria»). I versi ai quali il ku fa
riferimento, quasi citandoli, sono i seguenti: «Amore, fra cinque anni dove
andrò? / E tu chi sarai e chi saremo / Fuori dal riformatorio?». Tuttavia non
è detto che il tentativo sia riuscito e il patetismo dei versi, in questo
contesto, risulta quasi fastidioso. Il tema dell’amore è presente solo in
riferimento al maeku e alla canzone che è richiamata. Più che d’amore, però,
in questo caso si tratta del tema dell’impermanenza, a causa del forte senso
dello scorrere del tempo e del mutare delle persone.
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Avrà già i primi
Germogli e bianchi i rami
Rivolti al cielo
[Stefania
Nardone]
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Monji. Soshin. Primavera. Alberi.
Questo bel ku si collega molto efficacemente al tempo
futuro del maeku, dal quale per il resto si distacca completamente,
introducendo un’immagine primaverile (“primi germogli” è il kigo). In questo
modo, la domanda posta nel maeku sembra trovare qui una concretizzazione,
diventando quasi un nostalgico ricordo di casa. Si potrebbe scorgere, in
questo senso, un’introduzione del tema del rimpianto o della rimemorazione.
Tuttavia, si tratta di un accenno troppo lieve per parlare di tema. Il tono,
molto mon, è leggermente abbassato dalla struttura sintattica, molto
definita.
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Vento di primavera
Petali su petali
[Elvira
Acampora]
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Mon. Shinso. Primavera. Alberi.
Hana no joza.
Un buon hana no joza che si collega direttamente
all’immagine del maeku, spostandola però dall’inizio della primavera (“i
primi germogli”) alla primavera avanzata (“petali su petali”). Il
collegamento, peraltro, avviene per honga, nell’implicita allusione ad un
haiku di Masaoka Shiki. Il “vento di primavera” è un altro kigo, un po’
ingiustificato, dal momento che non occorreva esplicitare la stagione.
Tuttavia, nel complesso, questo monku è molto bello e delicato.
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Nidi di merli
Tra glicini in fiore
Frullano d’ali
[Titti Tidone]
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Mon. So. Primavera. Fiori.
Uccelli.
Anche qui compaiono due kigo: i “nidi”, infatti, sono
sempre kigo primaverili, così come i “glicini in fiore”, che indicano la
tarda primavera. Un’altra bella immagine della primavera, molto vagamente
collegata, per yosei, a quella del maeku. “Frullano d’ali”, riferito ai nidi,
è davvero una bella trovata, molto efficace. I merli, peraltro, nidificano un
po’ ovunque, per cui è molto credibile la scena qui descritta.
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Ritorna al castello
Recando un messaggio
[Marina Nardone]
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Ji. Shinso. Zō. Villaggi.
Un collegamento molto efficace che sfrutta i “merli” del
maeku per reinterpretarli come la merlatura di un castello, profilatosi in
lontananza. La scena muta completamente ma è possibile cogliere, volendo,
anche un honga, perché sembra abbastanza forte il richiamo al «Re Carlo» di
Fabrizio De Andrè, che «tornava dalla guerra», «tra i glicini e il sambuco».
Adesso è introdotta un’immagine vivida, molto narrativa (dunque, anche, molto
ji), che offre la possibilità di variare e drammatizzare molto la successiva
dinamica del kasen.
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E lascia il soglio
La veste bianca al vento
Il vecchio saggio
[Maria Valeria
Ferruzza]
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Jimon. Soshin. Zō. Religione.
Vestiti.
Il quadretto vivido del maeku è subito sfruttato per
introdurre un’altra figura molto concreta, che fa evidentemente riferimento
alle dimissioni del papa. Il tema è dunque religioso. L’assenza di un più
esplicito riferimento, comunque, rende possibile cogliere, in questo ku,
tanto un fatto di attualità quanto un’omokagezuke, nel rimando alla storia
medievale (suggerito proprio dal maeku) e, dunque, a “colui che fece per
viltade il gran rifiuto”, Celestino V, il quale fu imprigionato nel 1295 nel
castello di Fumone. Un passaggio molto felice di questo kasen anche se,
forse, c’è una certa stonatura nell’immagine plastica della “veste bianca al
vento” che aumenta leggermente il tono del ku ma rischia di apparire un po’
fuori luogo.
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Festa a Montemarano
Il vino scorre in piazza
[Gabriella Galbiati]
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Ji. Soshin. Inverno. Religione.
Villaggi. Prodotti umani. Luoghi.
Questo tsukeku coglie bene l’aspetto figurativo del maeku
e propone una scena carnascialesca, in cui il “vecchio saggio” con la “veste
bianca” è reinterpretato come una maschera in una sfilata e potrebbe
addirittura essere visto come un mago o un personaggio fantasy. Per la prima
volta viene introdotto in questo kasen un luogo specifico, Montemarano, famoso
per la tarantella montemaranese e per il carnevale: pertanto, “Festa a
Montemarano” è un buon kigo invernale, poiché per l’appunto individua la
festa di carnevale. Questo fa sì che sia mantenuto il tema religioso poiché,
per quanto il carnevale non è considerabile come una festa cattolica,
cionondimeno è legato al calendario liturgico, oltre ad essere una
sopravvivenza di culti pagani. “Il vino scorre in piazza” è una frase un po’
scontata che, tra l’altro, reintroduce la categoria lessicale dei villaggi,
presente nell’uchikoshi. A parte questo piccolo neo, si tratta di un jiku
molto efficace, che contribuisce a un buon andamento del nagori no omote.
Davvero in questi ultimi ku si può avvertire un’intensificazione del
dinamismo compositivo molto gradevole, che sembra sviluppare in un
arrangiamento jazz i diversi “motivi”.
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Neve sui rami
Al suono di paranze
Cade al suolo
[Gianfranco
Irlanda]
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Monji. Shinso. Inverno. Alberi.
Segue quindi una scena molto mon, per quanto legata
evidentemente alla situazione del maeku, con l’immagine vivida delle paranze
di una festa di paese. Il cadere della neve (ovviamente, kigo invernale) dai
rami restituisce molto bene la sensazione del chiasso e dello stordimento di
una paranza o di una banda musicale. Un altro passaggio molto efficace.
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Le dita sporche d’olio
Un pescatore ride
[Diego Rossi]
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Ji. Soshin. Zō. Persone.
Collegandosi per kotobazuke direttamente alle “paranze”,
reinterpretate qui come una frittura di pesce, questo jiku dal gusto molto
bozzettistico cambia completamente scena, introducendo il ritratto di un
pescatore “ripreso” mentre sta mangiando da un cartoccio. Continua questo
momento molto “agitato” del kasen, in una sequenza quasi caleidoscopica di
immagini molto semplici e realistiche, che risponde molto bene al principio
del karumi, semplicità e freschezza, proprio del gusto haikai.
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Ultima lisca
Indugia sulla lingua
Sapor d’infanzia
[Cristiano
Sorrentino]
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Jimon. Shinso. Zō. Rimemorazione.
Qui il tema del ricordo è evidente e il gusto agrodolce,
il wabi-sabi, che permea questo ku, si sposa bene con il suo maeku,
conferendo una maggiore profondità all’intero movimento. La risata del
pescatore si vela, così, di una nota di amarezza, nell’indugiare su
quell’ultima lisca che rievoca la propria infanzia. Ne emerge così un tema
particolarmente toccante e, davvero, profondamente haikai: nella
fantasmagoria di immagini, suoni, eventi, ecco che, improvvisa, emerge la
consapevolezza amara dell’inaggirabilità del tempo e della fugacità della
vita. Davvero un momento, questo, di alta poesia. Un perfetto “gioco di
squadra”, per così dire.
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La grigia pozzanghera
Ha ingoiato una biglia
[Stefania
Nardone]
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Ji. So. Zō. Prodotti umani.
Qui c’è un nioizuke molto vago. Si potrebbe ancora parlare
di rimemorazione solo in virtù del rimando al maeku. Il senso di questo ku,
ad ogni modo, è chiaro: descrive, ora, in un flashback, direttamente la scena
ricordata ― quella biglia finita in una pozzanghera. Metaforicamente,
inoltre, la biglia (che si ricollega esplicitamente alla “infanzia” presente
nel maeku) simboleggia un ricordo perduto nella “grigia pozzanghera”
dell’inconscio. Anche l’immagine dell’ingoiare, ovviamente, contribuisce alla
riuscita del collegamento. Si avverte, in ogni caso, una certa indecisione
nel procedere: è come se, ora, quell’indugiare espresso nel ku precedente
affiorasse anche sul piano compositivo. In tal senso, questo ku si presenta
come una sottolineatura efficace, quasi una sospensione che rafforza la nota
grave del maeku.
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Solitario va
Con lo sguardo assente
Sotto la pioggia
[Elvira
Acampora]
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Jimon. So. Zō. Fenomeni di
precipitazione. Persone.
Questo passaggio è davvero molto cinematografico. Il
collegamento, decisamente so, è per associazione d’immagini (kokorozuke) ma, forse, esprime un
ottimo nioizuke. Molto gradevole:
il primissimo piano della biglia ora sfuma, per così dire, e gli si
sovrappone l’immagine di un uomo solitario che si allontana nella pioggia,
quasi in un flashback alla Leone. Il fatto che sia in terza persona, molto
descrittivo e con elementi naturalistici, aumenta il tono di questo jiku,
rendendolo jimon, se non monji. Si comincia ad avvertire un nuovo crescendo,
che dovrebbe raggiungere l’acme alla fine del nagori no omote.
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Il cervo nella notte
Bramisce d’amore
[Titti Tidone]
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Mon. Shinso. Autunno. Amore.
Animali.
Qui il personaggio del maeku è reinterpretato come un
cervo solitario che bramisce nella notte. Un’immagine molto efficace, che
esplicita, tra l’altro, un sentimento presente nella figura solitaria del ku
precedente, introducendo così il tema dell’amore. Il collegamento è molto
stretto, per quanto decontestualizzi i versi del maeku, sia perché può essere
un hirazuke, sia perché il cervo può essere letto come una metafora dell’uomo
solo e innamorato. “Cervo” è anche un ottimo kigo autunnale, così come lo è,
a maggior ragione, il suo bramito. Il risultato è un ku molto suggestivo ed
allusivo, che restituisce bene il lirismo giapponese.
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Luna crescente
In silenzio gli sguardi
Desiderosi
[Maria Valeria
Ferruzza]
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Monji. Shinso. Autunno. Amore.
Fenomeni luminosi. Tsuki no joza.
“Luna crescente” (gengetsu,
弦月) è kigo
autunnale, oltre a connotare, ovviamente, questo ku come uno tsuki no joza. Efficace il senso di
tensione erotica crescente comunicato da questo semplice rimando alla luna.
Tuttavia la scena descritta rischia di essere un po’ troppo concreta per
potersi definire un mon e fa perdere un po’ di efficacia all’elevatezza
lirica conferita dalla posizione della luna. “Gli sguardi”, inoltre,
richiamano troppo “lo sguardo assente” dell’uchikoshi, a formare quindi un
kannonbiraki. Resta comunque, in sé, un bel ku, molto sostenuto, che ha tutte
le caratteristiche di un haiku ‒ e forse è proprio questo che lo rende poco
intrecciato al tessuto complessivo, nonostante il collegamento molto stretto
nel rimando esplicito al desiderio amoroso.
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La lanterna illumina
Il dono del futuro
[Gabriella
Galbiati]
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Ji. Shinso. Autunno. Amore.
Religione. Fenomeni luminosi. Prodotti umani.
Il nagori no omote si chiude con un’improvvisa caduta di
tono. La “luna crescente” evoca direttamente la “lanterna” illuminata, che
funge da kigo autunnale. Questo ku ha una duplice valenza e, in questo, è
davvero molto giapponese: da un lato, infatti, tanto la lanterna quanto il
“dono del futuro” possono essere interpretati come una celebrazione buddhista
‒ il festival
delle lanterne (tooroo nagashi,
燈籠流), in cui le
lanterne che sono lasciate scorrere su un fiume come dono ai defunti,
rappresentano le anime dei trapassati; d’altro canto, però, soprattutto in
riferimento al maeku, è possibile leggere la lanterna come una “lanterna
rossa” (in riferimento al famoso film di Zhang Yimou) e dunque interpretare
il ku come un riferimento all’atto del concepimento di un figlio (il “dono
del futuro”). Quindi, si può dire che questo ku introduca tanto il tema
religioso quanto che continui il tema dell’amore. Il tono è molto ji
soprattutto per il linguaggio, molto piatto perché si tratta di una frase
semplice e lineare, nonché per la concretezza dell’immagine. Ma la ricchezza
semantica è, nondimeno, notevole.
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Il cieco torna
A sera, fiducioso ―
Felice scontro
[Marina Nardone]
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Jimon. Shin. Zō. Religione. Sera.
Persone.
Questo tsukeku si ricollega al maeku, direttamente,
attraverso l’accostamento tra la lanterna e la vista (il lume) e gioca sul
senso dell’illuminazione zen, come evento improvviso in cui ci s’imbatte. In
realtà, qui c’è un forte uzumiku, che si richiama ad un aneddoto zen: ad un
vecchio cieco, nel tornare a casa di notte, fu affidata una lanterna, per
evitare che gli altri, non vedendolo, potessero urtarlo. Così, abituato a
muoversi senza vedere, s’incamminò fiducioso quando, all’improvviso, un uomo
lo urtò con violenza. Arrabbiandosi, il vecchio esclamò “non hai visto la
luce della lanterna?”. Al che l’altro rispose: “Vecchio, la tua lanterna è
spenta!”. Naturalmente, questa storia è una metafora dell’inutilità di un
possesso concettuale dell’illuminazione (zen) che non sia interiorizzata. Si
tratta quindi di un collegamento molto prezioso e raffinato, oltre che
strettissimo (perché gioca, tra l’altro sul doppio significato di
“illuminazione” e di “dono”). La tenuta narrativa rende il ku piuttosto ji ma
non manca una struttura sintattica che gli conferisce un certo tono mon, con
un buon toriawase, sostenuto dalla descrizione in terza persona. L’ironia,
inoltre, che emana da questa storia, ha davvero tutto il gusto dell’haikai e
del wabi-sabi.
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Il canto del Muezzin
Nel cuore del deserto
[Stefania
Nardone]
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Monji. So. Zō. Religione. Persone.
Il collegamento di questo tsukeku è un puro sōtai. Per
suggestione, ad una forma di illuminazione (zen) fa da contrappunto un altro
tipo di illuminazione (islamica). E all’irraggiamento di quella luce è
paragonato lo spandersi della voce del Muezzin che guida il popolo nel cuore
del deserto. Una bella immagine, che cambia radicalmente prospettiva e
contesto (anche geografico). Naturalmente, qui il tema religioso è
preponderante. Lo yugen è molto profondo e suggestivo: un bel colpo di pennello
che suggerisce molto efficacemente un intero mondo, quello musulmano e
mediorientale.
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Spuntano i fiori
Tra le rocce riarse
Che felicità!
[Gianfranco
Irlanda]
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Monji. Shinso. Primavera. Fiori.
I fiori sono introdotti in riferimento alle rocce riarse
di un deserto. È un ku molto naif e ottimistico, di speranza, in cui si
percepisce, anche nel “cuore del deserto”, la possibilità di un rinnovamento
della vita. Il “che felicità!” dell’ultimo verso può essere considerato un
kireji e fornisce un buon toriawase alla struttura del ku, per quanto, forse,
comunichi troppo esplicitamente il sentimento di speranza espresso
dall’immagine dei fiori, abbassando quindi, forse involontariamente, il tono.
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All’alba di un nuovo
Giorno ― il cinguettio
[Elvira
Acampora]
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Monji. So. Primavera. Alba.
Uccelli.
Il collegamento con il maeku è affidato ad una suggestione
molto vaga, che fa riferimento ad un comune sentimento di speranza ‒ il
“nuovo giorno”. Il “cinguettio” è un bel kigo primaverile che, tra l’altro,
contribuisce a restituire questo piacevole sentimento di buonumore.
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Freddo nelle ossa
Nella penombra stanca
Alberi in fiore
[Diego Rossi]
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Monji. Shin. Primavera. Alberi.
Hana no joza.
Per evitare di indugiare troppo a lungo sull’ottimismo
espresso nell’uchikoshi, questo ku si collega direttamente all’immagine del
maeku, ipotizzando una notte trascorsa senza sonno. Il “freddo nelle ossa”
qui, fa riferimento, ovviamente, all’ora del giorno, per quanto sia kigo
invernale. Ma “alberi in fiore” è un kigo decisamente primaverile e, quindi,
ha la preminenza. Ne vien fuori un hana no joza piuttosto sotto tono, per
quanto comunichi, nondimeno, un certo yugen e una sensazione di rilassatezza,
offrendosi quindi come spalla all’ageku.
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Portano gli zefiri
Un tepore inatteso
[Cristiano Sorrentino]
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Mon. Soshin. Primavera.
Un ageku molto bello e suggestivo che, al “freddo delle
ossa”, risponde con un “tepore inatteso”, concludendo quindi con una nota
molto positiva. Gli zefiri sono, ovviamente, kigo primaverile. Potrebbero,
volendo, essere letti come complemento oggetto, legandosi per hirazuke al
verso precedente, il che rende più stretto il collegamento. L’indefinitezza
dell’ora, qui, mentre contribuisce ad allontanarsi dall’uchikoshi, serve a
chiudere l’intero kasen, avvolgendolo in un bel clima, gradevole e sfumato.
La giusta chiosa a questo componimento.
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Kaze ni Kasen
(風に歌仙)
esprime bene lo spirito di questo “kasen al vento”, che sembra ondeggiare e lasciarsi
trasportare dolcemente dai venti che compaiono in diversi momenti chiave di
questa sequenza. Un renku molto armonioso, gradevole anche ad una lettura
superficiale: l’haikai dovrebbe proprio sembrare fresco e vivace, ad una
prima occhiata, per rivelarsi ricco di contenuti ed allusioni quando lo si
osservi da vicino. In questo senso, il kasen è riuscitissimo. Alcune
sbavature, alcuni piccoli errori, pur presenti, non guastano, anzi sembrano
arricchirlo, rendendolo più genuino e poco artefatto. Soprattutto, è molto
piacevole la sensazione che non ci sia nessuna forzatura o ricercatezza
eccessive: i singoli ku emergono naturalmente l’uno dall’altro, ora
avvicinandosi ora allontanandosi dolcemente, proprio come canne al vento, e
restituiscono così un quadro d’insieme davvero armonico, dove l’alternarsi
delle stagioni restituisce bene il senso del fluire del tempo, la vita nelle
sue mille sfaccettature. La pluralità di voci, anziché impossibilitare la
riuscita della sequenza, sembra un valore aggiunto, poiché, nonostante certe
discrepanze, anche consistenti, nello stile e nel gusto, non ci sono mai dei
veri e propri attriti né vere stonature. Sicuramente non potrà paragonarsi a
un raffinato kasen del periodo di Edo, nondimeno il lavoro è notevole e il
risultato finale, tutto sommato, è molto positivo.
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domenica 24 febbraio 2013
Kaze ni Kasen Napoli - 4/2/2013
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mamma mia, che faticaccia, che ho fatto... ne valeva la pena però. no? :)
RispondiEliminama come è piacevole rileggere con più attenzione i nostri lavori!
RispondiEliminaElvira