lunedì 11 febbraio 2013

Rakkasen
4-2-2013 - Napoli


© Diego Rossi - Sils Maria 2004

Luna d’inverno
Sul mare silenzioso
Resta una barca
[Elvira Acampora]

Fremente una ringhiera
Dal ferro congelato
[Cristiano Sorrentino]

E da un balcone
Osservare la neve
Che cade ― cade…
[Diego Rossi]

Aperto è il portone
Un vociare d’amici
[Titti Tidone]

Bottiglia vuota
Rotolante per terra
Cocci di vetro
[Maria Valeria Ferruzza]

Foglie rosse sui rami
Mille e mille riflessi
[Gianfranco Irlanda]

Giravoltano
In piccoli vortici
Voce d’autunno
[Gabriella Galbiati]

Nel freddo della sera
Le giovani gitane
[Stefania Nardone]

A due a due
E sottobraccio vanno
Vento leggero
[Marina Nardone]

In cerca dell’amore
Lontano ma sognato
[Elvira Acampora]

Soave pena!
La realtà si dissolve
Al sol vederti
[Cristiano Sorrentino]

Mentre un’auto si ferma
Io passo sconsolato
[Diego Rossi]

Lontano da me
T’immagino felice
La notte avanza
[Titti Tidone]

Le dune tremolanti
Alla luna agostana
[Maria Valeria Ferruzza]

Un gelataio
Sorridendo s’affretta
Verso i clienti
[Gianfranco Irlanda]

Un’anziana passeggia,
Si ferma ma non compra
[Gabriella Galbiati]

Cadono fiori
Dai suoi primi ricordi
Labbra rugose
[Stefania Nardone]

Nella pioggia improvvisa
Foschia all’orizzonte
[Marina Nardone]






Luna d’inverno
Sul mare silenzioso
Resta una barca
[Elvira Acampora]
Mon. Inverno. Fenomeni luminosi. Coste (tai). Tsuki no joza.
L’hokku è molto mon e descrive una scena invernale di desolazione e solitudine. Forse, un hokku più accogliente sarebbe stato preferibile, anche se, preso in sé, questo ku è molto bello e penetrante. Sarebbe stato perfetto come picco lirico in seconda o terza facciata, magari legato metaforicamente a qualche tema come l’amore o l’impermanenza. In questo caso, invece, rischia purtroppo di creare difficoltà al renju, per la sensazione di compiutezza e di chiusura che comunica, tanto più che il kigo, la “luna d’inverno”, denota il ku come uno tsuki no joza, previsto, normalmente, verso la fine della prima facciata.

Fremente una ringhiera
Dal ferro congelato
[Cristiano Sorrentino]
Jimon. Soshin. Inverno. Prodotti umani.
Il waki tenta un collegamento per keiki, non potendo trovare molti appigli contenutistici o metaforici senza rischiare di introdurre temi più pesanti, da evitare. Si mantiene quindi su un’immagine molto vaga, per quanto dettagliata. Un buon tentativo, che però non riesce realmente a sviluppare un discorso e quindi risulta tutto sommato stucchevole. Permane questo sentimento molto triste, nell’immagine di una ringhiera fredda che comunica una profonda solitudine. Decisamente, non un inizio molto promettente. Il kigo invernale è il “ferro congelato”, un’immagine abbastanza bizzarra, che però restituisce molto bene la sensazione gelida di una ringhiera esposta al freddo di una notte invernale.

E da un balcone
Osservare la neve
Che cade ― cade…
[Diego Rossi]
Mon. Shin. Inverno. Fenomeni di precipitazione. Villaggi (yu).
Il daisan deve a questo punto rilanciare e si propone quasi come un nuovo hokku, pur se mantiene questa nota di fondo molto nostalgica che ha accompagnato la coppia di apertura. La struttura del ku, volutamente molto mon, cerca di riprodurre l’incompletezza grammaticale che è richiesta tradizionalmente in questa posizione, sfruttandola per approfondire lo yugen e riaprire, di fatto, il componimento. La congiunzione di apertura, il verbo all’infinito, spersonalizzante, la ripetizione all’ultimo verso, sono i mezzi retorici per ottenere questo effetto. Il balcone, essendo un elemento non essenziale di un’abitazione, rientra sotto la categoria yu dei villaggi, piuttosto che nei prodotti umani. Costituisce un engo rispetto alla ringhiera (poiché i due termini sono ovviamente strettamente associati) e rende il ku molto shin, tanto più che la “e” iniziale può essere riferita per hirazuke direttamente al maeku, rispetto al quale comunque costituisce una ripresa. Il kigo invernale è, ovviamente, la neve.

Aperto è il portone
Un vociare d’amici
[Titti Tidone]
Ji. Shinso. Zō. Villaggi (tai). Persone.
Il daishi, che può essere definito ji, più ancora che jimon, riabbassa subito, di colpo, il tono, mentre sembra sancire la riapertura della sequenza. Il portone si collega direttamente al balcone, continuando questa sorta di allargamento di scena. In questo caso, si tratta di un elemento tai della categoria villaggi, perché l’ingresso è un elemento essenziale di qualunque casa. Tuttavia si nota ancora molta indecisione, come se non si riuscisse a mettere a fuoco nulla di interessante. Naturalmente, come waki, questo ku sarebbe perfetto, ma qui, forse, ci si aspetterebbe qualcosa di più definito, mentre la concretezza ji dell’immagine rischia di spezzare l’andamento che ci si aspetterebbe nello shori no omote.

Bottiglia vuota
Rotolante per terra
Cocci di vetro
[Maria Valeria Ferruzza]
Ji. Shinso. Zō. Prodotti umani.
Qui è introdotto un nuovo dettaglio, molto stretto: un singolo elemento, la bottiglia, che però ancora non apre realmente ad alcunché di interessante. Una simile sequenza sarebbe perfetta sul terzo kaishi ma qui, davvero, è sintomatico di una difficoltà nel partire, come se nessuno volesse assumersi la responsabilità di dire qualcosa. La bottiglia che rotola, però, rischia di richiamare il cadere della neve nell’uchikoshi. L’immagine, inoltre, è addirittura inquietante e sembra suggerire un evento tragico o comunque drammatico, soprattutto se legato al maeku. Questo indica davvero che qualcosa non sta funzionando, come se ci fosse un clima di disagio nel renju. E probabilmente è così.

Foglie rosse sui rami
Mille e mille riflessi
[Gianfranco Irlanda]
Mon. So. Autunno. Alberi.
Siamo all’oriashi, cioè al ku che chiude la prima facciata. Si deve introdurre una stagione e chiudere degnamente lo shori no omote. Questo ku lo fa egregiamente ― ma si avverte, d’altro canto, l’urgenza con la quale è effettuato l’intervento. Il ku è molto mon ed è necessariamente molto scollegato dal maeku. L’unico, vago, collegamento è dato dai “riflessi” che si richiamano al vetro dei cocci. Resta comunque una nota di inquietudine nel rosso delle foglie e nella sensazione quasi claustrofobica dei “mille e mille riflessi”, quasi come se fosse la scena di un thriller. Staccando, invece, il ku dal suo maeku, l’immagine è molto “autunnale” e poetica. L’assenza del verbo approfondisce molto lo yugen e sembra davvero tagliare di netto la sequenza precedente. Il lettore resta un po’ con la sensazione di non aver saputo come va a finire la storia! Tuttavia, questo taglio improvviso sembra giustificato dall’esigenza di uscire da quello che sembrava un vicolo cieco.

Giravoltano
In piccoli vortici
Voce d’autunno
[Gabriella Galbiati]
Monji. Shinso. Autunno.
Un ku molto onesto, finalmente, nella sua semplicità. Una genuina descrizione delle foglie portate dal vento, a cui allude il “giravoltano” d’apertura. Bella soluzione che, però, in questo contesto, richiama troppo il rotolare dell’uchikoshi. “Voce d’autunno” è un classico kigo che indica il vento tra le foglie secche degli alberi. L’assenza del soggetto è un’ottima soluzione per collegarsi al soggetto del maeku (anzi, eventualmente, ad entrambi i soggetti, perché, volendo, potrebbe riferirsi anche ai mille riflessi) senza ripeterlo e, nel contempo, offre un assist, per così dire, al prossimo tsukeku, che può quindi agevolmente inserirsi introducendo un nuovo soggetto (come di fatto accade qui).

Nel freddo della sera
Le giovani gitane
[Stefania Nardone]
Monji. Soshin. Autunno. Sera. Persone.
Le “giovani gitane” sono il nuovo soggetto, riferito al “giravoltano” del maeku, il che, tra l’altro, offre la possibilità di essere piuttosto laschi, nel collegamento, pur mantenendolo molto evidente. Il “freddo della sera” è un classico kigo autunnale, perché è in questa stagione che si comincia a sentire. L’assenza del verbo è un ottimo modo per creare un’immagine sospesa (pur sfruttando il verbo del maeku) e, anche in questo caso, per fornire una spalla allo tsukeku.

A due a due
E sottobraccio vanno
Vento leggero
[Marina Nardone]
Jimon. Shin. Zō. Persone.
L’occasione offerta dal maeku è colta egregiamente in un ku molto ji che si collega per hirazuke, sviluppando l’immagine delle giovani gitane e specificandone il contesto (in tal modo allontanandosi definitivamente dall’uchikoshi). Questi ultimi tre ku costituiscono un esempio da manuale, quasi, di come dovrebbe procedere il concatenamento tipico del renga. Il tono basso e la concretezza dell’immagine vivificano la sequenza, ora, e danno un tocco di colore. Il kasen comincia finalmente a “partire”.

In cerca dell’amore
Lontano ma sognato
[Elvira Acampora]
Jimon. Shin. Zō. Amore. Sogno.
Questo ku interpreta le figure del maeku come un gruppo di ragazzine che escono la sera, in cerca di “avventure”. L’immagine è molto vivida e concreta, pur con un tono abbastanza lirico che sembra sorridere con bonarietà alle inquietudini dell’adolescenza. Forse dovrebbe allontanarsi con maggiore decisione dall’uchikoshi.

Soave pena!
La realtà si dissolve
Al sol vederti
[Cristiano Sorrentino]
Jimon. Shin. Zō. Amore.
Le inquietudini dell’adolescenza ritornano nelle pene d’amore accettate con gioia da un amante. Il sogno ritorna nella dissolvenza della realtà, che suggerisce l’illusione dell’amore, anche con una certa vena amara, molto efficace. Il discorso in prima persona abbassa molto il tono di un ku che altrimenti sarebbe alquanto sostenuto. L’ossimoro iniziale è quasi un contraltare occidentale al wabi sabi orientale e la mescolanza di temi zen in chiave patetica è interessante.

Mentre un’auto si ferma
Io passo sconsolato
[Diego Rossi]
Ji. Soshin. Zō. Amore. Prodotti umani.
Il collegamento è piuttosto distante, perché ribalta la scena, decostruendola. Il ku è molto ji, forse troppo. Reinterpreta la pena del maeku in chiave molto realistica e cruda e, continuando il discorso in prima persona, introduce l’immagine di un uomo che, camminando, intravede una donna, si fa prendere dalla passione e, forse, inizia a sognare (“so che t’avrei amata e so che tu lo sai”, sembra riecheggiare). Ma poi si scontra con la realtà, quando vede un’auto che si ferma e l’abborda, rendendosi conto che la donna è irraggiungibile (o, anche, una prostituta).

Lontano da me
T’immagino felice
La notte avanza
[Titti Tidone]
Jimon. Soshin. Zō. Amore. Notte.
Questo tsukeku, anziché abbandonare il tema dell’amore, lo reitera, reinterpretando il maeku nuovamente in chiave patetica: continuando il discorso in prima persona, l’amante torna a sognare l’amato/a, che è lontano, forse perduto/a. Il ku, in sé, è molto bello ma c’è qualche dubbio sulla sua opportunità in tale contesto, poiché reitera la stessa atmosfera trasognata dell’uchikoshi, sebbene con un tono di amarezza, e insiste su un tema ormai esaurito, senza aggiungere veramente qualcosa di nuovo.

Le dune tremolanti
Alla luna agostana
[Maria Valeria Ferruzza]
Monji. So. Estate. Fenomeni luminosi. Tsuki no joza.
L’estate viene introdotta, qui, mentre si produce un allontanamento netto dal tema dell’amore. Il ku è quasi del tutto scollegato, se non ci fosse un implicito riferimento (che forse si sarebbe dovuto esplicitare un po’ di più) alla notte che avanza del maeku. Il verbo al participio crea un effetto di sospensione molto gradevole, un’istantanea dell’estate molto ferma, nonostante il “tremolio”. Un’altra luna molto straniante, non tanto per la posizione (che cade grosso modo dove ce la si aspetterebbe) quanto perché non è messa in risalto come di consueto, anzi qui fa quasi da cornice.

Un gelataio
Sorridendo s’affretta
Verso i clienti
[Gianfranco Irlanda]
Ji. So. Estate. Persone.
Un ku molto ji, dal sapore squisitamente haikai. Un bozzetto vivido dell’estate (il gelataio è, ovviamente, kigo estivo, perché i gelati si mangiano prevalentemente d’estate, anche se si presume che esista durante tutto l’anno!). Non c’è nessun vero collegamento col maeku e, al limite, qui si produce un vero strappo nella trama. Si può solo ipotizzare un vago keiki che, però, non funziona molto bene.

Un’anziana passeggia,
Si ferma ma non compra
[Gabriella Galbiati]
Ji. Shinso. Zō. Persone.
Lo tsukeku affianca un nuovo ritratto al maeku. Adesso compare una vecchietta che passeggia tra la folla, davanti alla gelateria, si suppone. “Si ferma ma non compra” è abbastanza vago ed evocativo e rende più interessante questa figura. È un passaggio della sequenza molto felice, che promette ulteriori sviluppi, in perfetto stile haikai.

Cadono fiori
Dai suoi primi ricordi
Labbra rugose
[Stefania Nardone]
Monji. Shin. Primavera. Rimpianto. Alberi. Hana no joza.
Dopo due ku molto abbozzati e molto ji, saliamo di un’ottava, per così dire, in un’immagine davvero bella, che si collega perfettamente al maeku. I fiori rientrano in questo caso nella categoria degli alberi e non delle piante, perché cadono, il che fa di questo ku un hana no joza. Molto efficacemente, i fiori cadono “dai suoi primi ricordi”, per cui la scena primaverile si collega direttamente al ricordo della giovinezza perduta, introducendo quindi il tema del rimpianto, con una trovata davvero bella, di notevole effetto, che soddisfa anche il senso d’attesa prodotta dal maeku. Le labbra rugose creano, inoltre, una bella dialettica, di un morbido erotismo, rispetto alla delicatezza dei fiori e, con vero gusto giapponese, crea un’immagine efficacissima della transitorietà di quel fiore che è la giovinezza, appassito in un attimo.

Nella pioggia improvvisa
Foschia all’orizzonte
[Marina Nardone]
Mon. Soshin. Primavera. Fenomeni di precipitazione. Fenomeni di sollevazione.
Si chiude benissimo questo hankasen, con un ku che potrebbe tranquillamente essere l’ageku di un kasen completo. Il tono è decisamente mon. La pioggia rievoca vagamente la pioggia di petali dei fiori che cadono nel maeku e crea una dialettica simile a quella tra fiori e labbra, proponendo un’alternanza tra pioggia e foschia, molto originale ed efficace, in un’immagine che offre un esempio concreto dell’alternarsi delle cose, metafora del samsara. Metafora dell’impermanenza, sola costante della vita. “Pioggia improvvisa” (驟雨, shuu-u; o, anche: 早雨, haya ame, “pioggia rapida”; 通り雨, toori ame, “pioggia passeggera” etc.: cfr. la voce Rain del World Kigo Database) è in verità un kigo estivo, perché fa riferimento a quegli scrosci improvvisi, temporaleschi e brevi che sono tipicamente estivi. Tuttavia, la pioggia costituisce dei kigo piuttosto deboli, laddove la foschia è un kigo associato fortemente alla primavera, poiché traduce kasumi (), termine giapponese che fa riferimento precisamente alla foschia primaverile (a differenza della “nebbia”, , kiri, che indica la nebbia autunnale. Cfr.: D. Nebel, Fog, Mist and more hazy words).

L’hankasen è, generalmente, un renku minore, un ripiego, in qualche modo, o un esercizio, perché costituisce a tutti gli effetti un kasen interrotto a metà. Di solito, nasce per l’impossibilità materiale di comporre un kasen vero e proprio. Qui, i difetti di un hankasen emergono tutti: non si ha il tempo di sviluppare qualcosa di interessante che già la sequenza si interrompe, bruscamente, e l’interruzione si sente tutta. In questo Rakkasen (落下歌仙), come lo chiameremo, si avverte inoltre tutta l’incertezza dovuta, da un lato, sicuramente, all’inesperienza, ma dall’altro alle difficoltà dovute al gran numero di partecipanti, che non hanno il tempo di inserirsi davvero nel clima della sessione: non a caso, la sequenza comincia a farsi veramente interessante solo al secondo giro mentre, all’inizio, fatica a partire, in una sequenza che procede per lunghi tratti a singhiozzi, introduce molti spunti senza mai svilupparli, ruzzola incerta per poi rimbalzare in un bell’acuto e collassare infine proprio sul più bello, quando cominciava a prendere le misure. Non è casuale che il kasen sia di gran lunga il renku per eccellenza, perché è l’unico che riesce a mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze di brevità e freschezza e una lunghezza minima che consenta di sviluppare appieno e con la giusta serenità i vari temi. Nel complesso, quindi, questo hankasen risulta un’occasione persa, una sorta di crollo (rakka) improvviso, che però lasciava intravedere ampi margini di sviluppo e alcuni passaggi davvero pregevoli, non sempre sostenuti da una corretta tenuta complessiva ma comunque molto positivi, nel complesso. Né si poteva pretendere molto di più da un hankasen scritto da un renju tanto numeroso.


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