© Diego Rossi - Sils Maria 2004 |
Luna d’inverno
Sul mare silenzioso
Resta una barca
[Elvira Acampora]
Fremente una ringhiera
Dal ferro congelato
[Cristiano Sorrentino]
E da un balcone
Osservare la neve
Che cade ― cade…
[Diego Rossi]
Aperto è il portone
Un vociare d’amici
[Titti Tidone]
Bottiglia vuota
Rotolante per terra
Cocci di vetro
[Maria Valeria Ferruzza]
Foglie rosse sui rami
Mille e mille riflessi
[Gianfranco Irlanda]
Giravoltano
In piccoli vortici
Voce d’autunno
[Gabriella Galbiati]
Nel freddo della sera
Le giovani gitane
[Stefania Nardone]
A due a due
E sottobraccio vanno
Vento leggero
[Marina Nardone]
In cerca dell’amore
Lontano ma sognato
[Elvira Acampora]
Soave pena!
La realtà si dissolve
Al sol vederti
[Cristiano Sorrentino]
Mentre un’auto si ferma
Io passo sconsolato
[Diego Rossi]
Lontano da me
T’immagino felice
La notte avanza
[Titti Tidone]
Le dune tremolanti
Alla luna agostana
Luna d’inverno
Sul mare silenzioso
Resta una barca
[Elvira Acampora]
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Mon.
Inverno. Fenomeni luminosi. Coste (tai). Tsuki no joza.
L’hokku è molto
mon e descrive una scena invernale di desolazione e solitudine. Forse, un
hokku più accogliente sarebbe stato preferibile, anche se, preso in sé,
questo ku è molto bello e penetrante. Sarebbe stato perfetto come picco
lirico in seconda o terza facciata, magari legato metaforicamente a qualche
tema come l’amore o l’impermanenza. In questo caso, invece, rischia purtroppo
di creare difficoltà al renju, per la sensazione di compiutezza e di chiusura
che comunica, tanto più che il kigo, la “luna d’inverno”, denota il ku come
uno tsuki no joza, previsto,
normalmente, verso la fine della prima facciata.
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Fremente una ringhiera
Dal ferro congelato
[Cristiano Sorrentino]
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Jimon.
Soshin. Inverno. Prodotti umani.
Il waki tenta un
collegamento per keiki, non potendo
trovare molti appigli contenutistici o metaforici senza rischiare di
introdurre temi più pesanti, da evitare. Si mantiene quindi su un’immagine
molto vaga, per quanto dettagliata. Un buon tentativo, che però non riesce
realmente a sviluppare un discorso e quindi risulta tutto sommato
stucchevole. Permane questo sentimento molto triste, nell’immagine di una
ringhiera fredda che comunica una profonda solitudine. Decisamente, non un
inizio molto promettente. Il kigo invernale è il “ferro congelato”, un’immagine
abbastanza bizzarra, che però restituisce molto bene la sensazione gelida di
una ringhiera esposta al freddo di una notte invernale.
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E da un balcone
Osservare la neve
Che cade ― cade…
[Diego Rossi]
|
Mon.
Shin. Inverno. Fenomeni di precipitazione. Villaggi (yu).
Il daisan deve a
questo punto rilanciare e si propone quasi come un nuovo hokku, pur se
mantiene questa nota di fondo molto nostalgica che ha accompagnato la coppia
di apertura. La struttura del ku, volutamente molto mon, cerca di riprodurre
l’incompletezza grammaticale che è richiesta tradizionalmente in questa
posizione, sfruttandola per approfondire lo yugen e riaprire, di fatto, il componimento. La congiunzione di
apertura, il verbo all’infinito, spersonalizzante, la ripetizione all’ultimo
verso, sono i mezzi retorici per ottenere questo effetto. Il balcone, essendo
un elemento non essenziale di un’abitazione, rientra sotto la categoria yu dei
villaggi, piuttosto che nei prodotti umani. Costituisce un engo rispetto alla ringhiera (poiché i
due termini sono ovviamente strettamente associati) e rende il ku molto shin,
tanto più che la “e” iniziale può essere riferita per hirazuke direttamente
al maeku, rispetto al quale comunque costituisce una ripresa. Il kigo
invernale è, ovviamente, la neve.
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Aperto è il portone
Un vociare d’amici
[Titti Tidone]
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Ji.
Shinso. Zō. Villaggi (tai). Persone.
Il daishi, che può
essere definito ji, più ancora che jimon, riabbassa subito, di colpo, il tono,
mentre sembra sancire la riapertura della sequenza. Il portone si collega
direttamente al balcone, continuando questa sorta di allargamento di scena.
In questo caso, si tratta di un elemento tai della categoria villaggi, perché
l’ingresso è un elemento essenziale di qualunque casa. Tuttavia si nota
ancora molta indecisione, come se non si riuscisse a mettere a fuoco nulla di
interessante. Naturalmente, come waki, questo ku sarebbe perfetto, ma qui,
forse, ci si aspetterebbe qualcosa di più definito, mentre la concretezza ji dell’immagine
rischia di spezzare l’andamento che ci si aspetterebbe nello shori no omote.
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Bottiglia vuota
Rotolante per terra
Cocci di vetro
[Maria Valeria Ferruzza]
|
Ji.
Shinso. Zō. Prodotti umani.
Qui è introdotto
un nuovo dettaglio, molto stretto: un singolo elemento, la bottiglia, che
però ancora non apre realmente ad alcunché di interessante. Una simile
sequenza sarebbe perfetta sul terzo kaishi ma qui, davvero, è sintomatico di
una difficoltà nel partire, come se nessuno volesse assumersi la
responsabilità di dire qualcosa. La bottiglia che rotola, però, rischia di
richiamare il cadere della neve nell’uchikoshi. L’immagine, inoltre, è
addirittura inquietante e sembra suggerire un evento tragico o comunque
drammatico, soprattutto se legato al maeku. Questo indica davvero che
qualcosa non sta funzionando, come se ci fosse un clima di disagio nel renju.
E probabilmente è così.
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Foglie rosse sui rami
Mille e mille riflessi
[Gianfranco Irlanda]
|
Mon.
So. Autunno. Alberi.
Siamo all’oriashi,
cioè al ku che chiude la prima facciata. Si deve introdurre una stagione e
chiudere degnamente lo shori no omote. Questo ku lo fa egregiamente ― ma si
avverte, d’altro canto, l’urgenza con la quale è effettuato l’intervento. Il
ku è molto mon ed è necessariamente molto scollegato dal maeku. L’unico,
vago, collegamento è dato dai “riflessi” che si richiamano al vetro dei
cocci. Resta comunque una nota di inquietudine nel rosso delle foglie e nella
sensazione quasi claustrofobica dei “mille e mille riflessi”, quasi come se
fosse la scena di un thriller. Staccando, invece, il ku dal suo maeku, l’immagine
è molto “autunnale” e poetica. L’assenza del verbo approfondisce molto lo
yugen e sembra davvero tagliare di netto la sequenza precedente. Il lettore
resta un po’ con la sensazione di non aver saputo come va a finire la storia!
Tuttavia, questo taglio improvviso sembra giustificato dall’esigenza di
uscire da quello che sembrava un vicolo cieco.
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Giravoltano
In piccoli vortici
Voce d’autunno
[Gabriella Galbiati]
|
Monji.
Shinso. Autunno.
Un ku molto
onesto, finalmente, nella sua semplicità. Una genuina descrizione delle
foglie portate dal vento, a cui allude il “giravoltano” d’apertura. Bella
soluzione che, però, in questo contesto, richiama troppo il rotolare dell’uchikoshi.
“Voce d’autunno” è un classico kigo che indica il vento tra le foglie secche
degli alberi. L’assenza del soggetto è un’ottima soluzione per collegarsi al
soggetto del maeku (anzi, eventualmente, ad entrambi i soggetti, perché,
volendo, potrebbe riferirsi anche ai mille riflessi) senza ripeterlo e, nel
contempo, offre un assist, per così dire, al prossimo tsukeku, che può quindi
agevolmente inserirsi introducendo un nuovo soggetto (come di fatto accade
qui).
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Nel freddo della sera
Le giovani gitane
[Stefania Nardone]
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Monji.
Soshin. Autunno. Sera. Persone.
Le “giovani gitane”
sono il nuovo soggetto, riferito al “giravoltano” del maeku, il che, tra l’altro,
offre la possibilità di essere piuttosto laschi, nel collegamento, pur
mantenendolo molto evidente. Il “freddo della sera” è un classico kigo
autunnale, perché è in questa stagione che si comincia a sentire. L’assenza
del verbo è un ottimo modo per creare un’immagine sospesa (pur sfruttando il
verbo del maeku) e, anche in questo caso, per fornire una spalla allo
tsukeku.
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A due a due
E sottobraccio vanno
Vento leggero
[Marina Nardone]
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Jimon.
Shin. Zō. Persone.
L’occasione
offerta dal maeku è colta egregiamente in un ku molto ji che si collega per
hirazuke, sviluppando l’immagine delle giovani gitane e specificandone il
contesto (in tal modo allontanandosi definitivamente dall’uchikoshi). Questi
ultimi tre ku costituiscono un esempio da manuale, quasi, di come dovrebbe
procedere il concatenamento tipico del renga. Il tono basso e la concretezza
dell’immagine vivificano la sequenza, ora, e danno un tocco di colore. Il
kasen comincia finalmente a “partire”.
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In cerca dell’amore
Lontano ma sognato
[Elvira Acampora]
|
Jimon.
Shin. Zō. Amore. Sogno.
Questo ku
interpreta le figure del maeku come un gruppo di ragazzine che escono la
sera, in cerca di “avventure”. L’immagine è molto vivida e concreta, pur con
un tono abbastanza lirico che sembra sorridere con bonarietà alle inquietudini
dell’adolescenza. Forse dovrebbe allontanarsi con maggiore decisione dall’uchikoshi.
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Soave pena!
La realtà si dissolve
Al sol vederti
[Cristiano Sorrentino]
|
Jimon.
Shin. Zō. Amore.
Le inquietudini
dell’adolescenza ritornano nelle pene d’amore accettate con gioia da un
amante. Il sogno ritorna nella dissolvenza della realtà, che suggerisce l’illusione
dell’amore, anche con una certa vena amara, molto efficace. Il discorso in
prima persona abbassa molto il tono di un ku che altrimenti sarebbe alquanto
sostenuto. L’ossimoro iniziale è quasi un contraltare occidentale al wabi
sabi orientale e la mescolanza di temi zen in chiave patetica è interessante.
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Mentre un’auto si ferma
Io passo sconsolato
[Diego Rossi]
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Ji.
Soshin. Zō. Amore. Prodotti umani.
Il collegamento è
piuttosto distante, perché ribalta la scena, decostruendola. Il ku è molto
ji, forse troppo. Reinterpreta la pena del maeku in chiave molto realistica e
cruda e, continuando il discorso in prima persona, introduce l’immagine di un
uomo che, camminando, intravede una donna, si fa prendere dalla passione e,
forse, inizia a sognare (“so che t’avrei amata e so che tu lo sai”, sembra riecheggiare).
Ma poi si scontra con la realtà, quando vede un’auto che si ferma e l’abborda,
rendendosi conto che la donna è irraggiungibile (o, anche, una prostituta).
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Lontano da me
T’immagino felice
La notte avanza
[Titti Tidone]
|
Jimon.
Soshin. Zō. Amore. Notte.
Questo tsukeku,
anziché abbandonare il tema dell’amore, lo reitera, reinterpretando il maeku nuovamente
in chiave patetica: continuando il discorso in prima persona, l’amante torna
a sognare l’amato/a, che è lontano, forse perduto/a. Il ku, in sé, è molto
bello ma c’è qualche dubbio sulla sua opportunità in tale contesto, poiché
reitera la stessa atmosfera trasognata dell’uchikoshi, sebbene con un tono di
amarezza, e insiste su un tema ormai esaurito, senza aggiungere veramente
qualcosa di nuovo.
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Le dune tremolanti
Alla luna agostana
[Maria Valeria Ferruzza]
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Monji.
So. Estate. Fenomeni luminosi. Tsuki no joza.
L’estate viene introdotta,
qui, mentre si produce un allontanamento netto dal tema dell’amore. Il ku è
quasi del tutto scollegato, se non ci fosse un implicito riferimento (che
forse si sarebbe dovuto esplicitare un po’ di più) alla notte che avanza del
maeku. Il verbo al participio crea un effetto di sospensione molto gradevole,
un’istantanea dell’estate molto ferma, nonostante il “tremolio”. Un’altra
luna molto straniante, non tanto per la posizione (che cade grosso modo dove
ce la si aspetterebbe) quanto perché non è messa in risalto come di consueto,
anzi qui fa quasi da cornice.
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Un gelataio
Sorridendo s’affretta
Verso i clienti
[Gianfranco Irlanda]
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Ji.
So. Estate. Persone.
Un ku molto ji,
dal sapore squisitamente haikai. Un bozzetto vivido dell’estate (il gelataio
è, ovviamente, kigo estivo, perché i gelati si mangiano prevalentemente d’estate,
anche se si presume che esista durante tutto l’anno!). Non c’è nessun vero
collegamento col maeku e, al limite, qui si produce un vero strappo nella
trama. Si può solo ipotizzare un vago keiki che, però, non funziona molto
bene.
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Un’anziana passeggia,
Si ferma ma non compra
[Gabriella Galbiati]
|
Ji.
Shinso. Zō. Persone.
Lo tsukeku
affianca un nuovo ritratto al maeku. Adesso compare una vecchietta che
passeggia tra la folla, davanti alla gelateria, si suppone. “Si ferma ma non
compra” è abbastanza vago ed evocativo e rende più interessante questa
figura. È un passaggio della sequenza molto felice, che promette ulteriori
sviluppi, in perfetto stile haikai.
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Cadono fiori
Dai suoi primi ricordi
Labbra rugose
[Stefania Nardone]
|
Monji.
Shin. Primavera. Rimpianto. Alberi. Hana no joza.
Dopo due ku molto
abbozzati e molto ji, saliamo di un’ottava, per così dire, in un’immagine
davvero bella, che si collega perfettamente al maeku. I fiori rientrano in
questo caso nella categoria degli alberi e non delle piante, perché cadono,
il che fa di questo ku un hana no joza. Molto efficacemente, i fiori cadono “dai
suoi primi ricordi”, per cui la scena primaverile si collega direttamente al
ricordo della giovinezza perduta, introducendo quindi il tema del rimpianto,
con una trovata davvero bella, di notevole effetto, che soddisfa anche il
senso d’attesa prodotta dal maeku. Le labbra rugose creano, inoltre, una
bella dialettica, di un morbido erotismo, rispetto alla delicatezza dei fiori
e, con vero gusto giapponese, crea un’immagine efficacissima della
transitorietà di quel fiore che è la giovinezza, appassito in un attimo.
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Nella pioggia improvvisa
Foschia all’orizzonte
[Marina Nardone]
|
Mon.
Soshin. Primavera. Fenomeni di precipitazione. Fenomeni di sollevazione.
Si chiude benissimo
questo hankasen, con un ku che potrebbe tranquillamente essere l’ageku di un
kasen completo. Il tono è decisamente mon. La pioggia rievoca vagamente la
pioggia di petali dei fiori che cadono nel maeku e crea una dialettica simile
a quella tra fiori e labbra, proponendo un’alternanza tra pioggia e foschia,
molto originale ed efficace, in un’immagine che offre un esempio concreto
dell’alternarsi delle cose, metafora del samsara. Metafora dell’impermanenza,
sola costante della vita. “Pioggia improvvisa” (驟雨, shuu-u; o, anche: 早雨, haya ame,
“pioggia rapida”; 通り雨, toori ame, “pioggia
passeggera” etc.: cfr. la voce Rain del World Kigo Database) è in verità un kigo estivo, perché fa riferimento a quegli
scrosci improvvisi, temporaleschi e brevi che sono tipicamente estivi.
Tuttavia, la pioggia costituisce dei kigo piuttosto deboli, laddove la
foschia è un kigo associato fortemente alla primavera, poiché traduce kasumi (霞), termine giapponese che fa riferimento
precisamente alla foschia primaverile (a differenza della “nebbia”, 霧, kiri,
che indica la nebbia autunnale. Cfr.: D. Nebel, Fog,
Mist and more hazy words).
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L’hankasen è, generalmente, un renku minore, un
ripiego, in qualche modo, o un esercizio, perché costituisce a tutti gli
effetti un kasen interrotto a metà. Di solito, nasce per l’impossibilità
materiale di comporre un kasen vero e proprio. Qui, i difetti di un hankasen
emergono tutti: non si ha il tempo di sviluppare qualcosa di interessante che
già la sequenza si interrompe, bruscamente, e l’interruzione si sente tutta.
In questo Rakkasen (落下歌仙),
come lo chiameremo, si avverte inoltre tutta l’incertezza dovuta, da un lato,
sicuramente, all’inesperienza, ma dall’altro alle difficoltà dovute al gran
numero di partecipanti, che non hanno il tempo di inserirsi davvero nel clima
della sessione: non a caso, la sequenza comincia a farsi veramente
interessante solo al secondo giro mentre, all’inizio, fatica a partire, in
una sequenza che procede per lunghi tratti a singhiozzi, introduce molti
spunti senza mai svilupparli, ruzzola incerta per poi rimbalzare in un bell’acuto
e collassare infine proprio sul più bello, quando cominciava a prendere le
misure. Non è casuale che il kasen sia di gran lunga il renku per eccellenza,
perché è l’unico che riesce a mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze
di brevità e freschezza e una lunghezza minima che consenta di sviluppare
appieno e con la giusta serenità i vari temi. Nel complesso, quindi, questo
hankasen risulta un’occasione persa, una sorta di crollo (rakka) improvviso, che però lasciava
intravedere ampi margini di sviluppo e alcuni passaggi davvero pregevoli, non
sempre sostenuti da una corretta tenuta complessiva ma comunque molto
positivi, nel complesso. Né si poteva pretendere molto di più da un hankasen
scritto da un renju tanto numeroso.
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