Come un odore
Acre d’aghi
d’abete
Al dì di festa
[Diego Rossi]
Le luci
intermittenti
Sul presepe
illuminato
[Elvira Acampora]
Ombre inquiete
S’aggirano vagando
Tra le stradine
[Gianfranco
Irlanda]
Ululato nel buio
Si chiudono i
cancelli
[Maria Valeria
Ferruzza]
È custodito
Il giardino
segreto
Petali lievi
[Marina Nardone]
Un vecchio resta
zitto
Masticando una
viola
[Roberta De
Gregorio]
Densa polvere
Sui tasti logorati
Del pianoforte
[Stefania Nardone]
Si sfiorano le
mani
Guardando il
tramonto
[Rosalia Urna]
Pelle sudata
Saliva sulle
labbra
Sabbia rovente
[Cristiano]
Uccello che ha
mangiato
Vola via ridendo
[Gabriella
Galbiati]
Sotto le nubi
La luna si
nasconde
Fino all’alba
[Maria Valeria
Ferruzza]
Ed il vulcano
dorme
Pioggia di foglie
secche
[Gabriella
Galbiati]
© Diego Rossi 2008 |
Come un odore
Acre d’aghi d’abete
Al dì di festa
[Diego Rossi]
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Mon. Inverno.
Alberi. Religione.
L’hokku è molto vago. Forse non
sarebbe definibile come mon puro, perché fa riferimento ad una situazione
piuttosto specifica, per quanto solo indirettamente, suggerendo chiaramente
il natale. L’abete è kigo invernale. Il toriawase è molto sfumato ma
percepibile. Il “come” iniziale e l’assenza di verbi intensificano lo yūgen,
sfumando molto l’immagine e approfondendola. La festa cui si accenna potrebbe
forse costituire un tema religioso, anche se qui la presenza di un tema
specifico è incerta.
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Le luci intermittenti
Sul presepe illuminato
[Elvira Acampora]
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Jimon. Shin.
Inverno. Religione. Fenomeni luminosi. Prodotti umani.
Il waki continua l’immagine
precedente per keiki, in un collegamento molto stretto (l’abete e il presepe
sono, peraltro, un tipico esempio occidentale di “engo”, 縁語, essendo due
termini ovviamente associati fra loro). Il presepe è kigo invernale. Il tema
religioso qui è più esplicitato. Tuttavia il ku può essere letto in due modi:
oltre che letteralmente, con riferimento ad un effettivo presepe, lo si può
leggere come la descrizione di un paesino di montagna, animato,
evidentemente, dalle feste, o da una rappresentazione sacra. Tanto le luci
intermittenti (che costituiscono un fenomeno luminoso) quanto il presepe
costituiscono dei prodotti umani.
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Ombre inquiete
S’aggirano vagando
Tra le stradine
[Gianfranco
Irlanda]
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Monji.
Shinso. Zō. Villaggi.
Il daisan si collega bene al waki,
creando però un buon distacco dall’uchikoshi e allargando la “visuale”.
Anziché proseguire l’immagine del waki, la reinterpreta, per così dire,
decostruendola: così alle luci intermittenti si oppongono delle ombre inquiete
e all’immagine complessiva di un presepe fa da contrappunto una “zoomata”
sulle stradine, che però introducono un’immagine più dinamica e aperta,
perché escono dalla dimensione casalinga in cui è ovviamente collocato il
presepe.
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Ululato nel buio
Si chiudono i cancelli
[M. Valeria
Ferruzza]
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Monji.
Shinso. Zō. Notte. Villaggi.
Il collegamento è piuttosto stretto,
per suggestione e per continuazione d’immagine. Le stradine del maeku evocano
naturalmente i cancelli, per un’associazione abbastanza immediata (anche qui
si può parlare di “engo”) mentre l’ululato sospeso nel buio si sposa bene con
l’atmosfera lugubre evocata dalle “ombre inquiete” del daisanku. È un altro
ku tendente al mon ma la scena descritta è molto legata a un immaginario più
supernaturalistico che naturalistico. Sarebbe stato un mon perfetto se si
fosse parlato, anziché di cancelli, di “vento tra gli alberi” o qualcosa di
simile. Lo yūgen, comunque, è molto profondo e l’immagine è di forte impatto.
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È custodito
Il giardino segreto
Petali lievi
[Marina Nardone]
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Monji. Shin.
Primavera. Villaggi. Fiori.
È un hana no joza molto prezioso e,
al limite, “ardito”. “Custodito” e “segreto” creano una ridondanza che,
ricollegandosi direttamente alla chiusura dei cancelli nel maeku, sembra
davvero celare lo sguardo e non consente di figurarsi la scena. Lo yūgen è
assicurato ― ma si avverte qui quasi una reticenza nei confronti del lettore,
un’indisposizione ad offrire l’immagine del trionfo della primavera in tutto
il suo splendore, come pure ci si aspetterebbe, a questo punto. Certo il
legame col maeku non consentiva una reale esplosione della primavera, che
avrebbe richiesto un collegamento decisamente so. Questa soluzione, invece, dà
luogo ad un ku molto più “silenzioso”, con una bassa saturazione, si direbbe,
in cui la primavera diventa una “promessa”, custodita gelosamente, che
suggerisce quasi una relazione erotica.
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Un vecchio resta zitto
Masticando una viola
[Roberta De Gregorio]
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Jimon.
Soshin. Primavera. Reminiscenza. Fiori. Persone.
Il collegamento col maeku è molto
lasco ma è evidente nella reticenza che qui viene messa in parole, attraverso
l’immagine di un vecchio, probabilmente di un custode, che resta in silenzio
mentre mastica una viola. La viola è il necessario kigo primaverile. Per il
resto, però, il ku non è affatto dedicato alla primavera, bensì alla figura
di questo enigmatico vecchio, per cui introduce il tema della reminiscenza, o
della vecchiaia, nello specifico. Il suo silenzio, anzi, potrebbe essere
letto come un segno della sua “disillusione” di fronte alla sopraggiunta
primavera. Nel complesso emerge una sequenza piuttosto amara: come una
primavera che non è mai fiorita o che sfiorisce troppo presto.
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Densa polvere
Sui tasti logorati
Del pianoforte
[Stefania Nardone]
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Monji. Shin.
Zō. Reminiscenza. Prodotti umani
Questo ku è un jimon o un monji. Può
essere definito monji dal momento che è un’immagine molto efficace del
passare del tempo in quanto tale, anche se è molto vivida e concreta (dunque
ji). Inoltre la tenuta linguistica è molto poetica e l’assenza del verbo
approfondisce lo yūgen rendendolo molto mon. Qui l’amarezza avvertita nei ku
precedenti si concretizza nella polvere di un vecchio pianoforte abbandonato.
Il collegamento è molto stretto, perché l’analogia si riallaccia direttamente
alle parole del maeku: qui a stare zitto è un vecchio pianoforte. Inoltre la
“viola” del maeku è letta qui come uno strumento musicale che sta, probabilmente,
dimenticata insieme al pianoforte. Il tema è dunque quello della
reminiscenza, perché riprende ed allarga l’immagine precedente, ma qui
sarebbe più corretto parlare di transitorietà (i due temi, comunque, sono
spesso considerati come un tutt’uno).
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Si sfiorano le mani
Guardando il tramonto
[Rosalia Urna]
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Jimon. So.
Zō. Amore. Tramonto. Persone.
Il collegamento molto lasco col maeku
può essere avvertito solo nello “sfiorarsi” delle mani che evoca uno sfiorare
i tasti sul pianoforte. Per il resto la scena muta completamente, facendosi
romantica e tendenzialmente ottimistica. È comunque molto ji, anche se
l’immagine del tramonto eleva un po’ il tono. Questo ku crea una buona
rottura con la sequenza precedente e si colloca come momento di passaggio per
una nuova serie di immagini. Tuttavia non centra, sostanzialmente, il tema
dell’amore, perché non fornisce dettagli e si configura come una cartolina
piuttosto generica. Potrebbe anche essere un semplice schizzo di un panorama,
con la descrizione in terza persona di due figure sedute o che camminano
tenendosi per mano. Ma dovrebbe essere costruita diversamente se volesse
essere un monku puro, dovrebbe essere molto più descrittivo (avere il tenore
di un haiku, insomma) e quindi il lettore resta un po’ interdetto. Pertanto
ci si aspetta uno sviluppo nei ku successivi.
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Pelle sudata
Saliva sulle labbra
Sabbia rovente
[Cristiano
Sorrentino]
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Jimon.
Shinso. Estate. Amore. Spiaggia. Persone.
Questo ku sviluppa coerentemente il
ku precedente, in un keiki che rischia, però, di perdere l’occasione di
introdurre veramente il tema dell’amore. La descrizione, ora, indugia su
dettagli molto vividi di un rapporto sessuale. La sabbia rovente è kigo
estivo, quindi sappiamo che si tratta di un amore estivo. Tuttavia rimaniamo
sospesi tra il descrittivo, “oggettivo”, e la sensazione dell’amore. La
ricchezza dei dettagli, inoltre, può essere considerata eccessiva nel
contesto della poesia giapponese, poiché la “saliva sulle labbra” sarebbe un
dettaglio di per sé già molto efficace mentre la “pelle sudata” non aggiunge
molto alla scena. Del resto, l’insieme dei dettagli non fornisce nemmeno
alcun elemento decisivo che riguardi davvero il tema dell’amore: in fondo, se
non sapessimo che a questo punto dobbiamo aspettarci l’amore potremmo leggere
il ku tranquillamente come la descrizione di qualcuno che si inumidisce le
labbra mentre si abbronza sulla sabbia. L’hon’i dell’amore prevede un
desiderio inappagato. Anche qualora fosse appagato, un ku sull’amore dovrebbe
lasciar scorgere chiaramente l’elemento del desiderio: “L’osserva inquieto:
nuda pelle sudata ― sabbia rovente” sarebbe una possibile soluzione, che non
elimina l’idea di un appagamento ma lascia presagire, anche nell’ipotesi di
un rapporto sessuale, tutta l’inquietudine del desiderio amoroso e dietro ad
esso la scottatura di una delusione nell’irraggiungibilità di un reale
congiungimento totale (che è, questa, la vera natura del sentimento d’amore).
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Uccello che ha mangiato
Vola via ridendo
[Gabriella
Galbiati]
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Ji. Soshin.
Zō. Amore. Uccelli.
Questa sequenza sull’amore è,
evidentemente, il passaggio più problematico di tutto lo shisan. E non è un
caso. Ora il ku coglie bene la possibilità di tagliare corto con l’amore e
assume un tono sentenzioso molto efficace. Ricorre ad un vecchio proverbio,
in un tono decisamente ji che spezza la tendenza piuttosto mon dell’intera
sequenza. Il collegamento col maeku è distante, correttamente, ma rischia di
affidarsi ad un riferimento ambiguo un po’ troppo volgare. Probabilmente
molto haikai, del resto. Tuttavia quello che veramente risulta difficile da
digerire in questo ku è l’immagine dell’uccello che ride. È una forzatura
evidente che rischia di indebolire molto anche l’efficacia della metafora
suggerita dal proverbio. Anche a voler leggere l’uccello come una vera e
propria metonimia del maschio, anziché come metafora, semplicemente non
funziona (anche tralasciando il cattivo gusto). “‘Uccello che ha mangiato /
vola via’ diceva” sarebbe una soluzione comodissima, pulita, efficace. Del
resto il proverbio potrebbe essere citato solo a metà, aumentando di molto
l’impatto poetico e introducendo un elemento narrativo. Ad esempio: “Ridevo
se diceva: ‘uccello che ha mangiato…’”; ovvero: “Eppur lo dicevano: etc.”; o
ancora “ ‘Uccello che ha mangiato’ ― e io non ci credevo!” e così via. Ma
potrebbe anche opporre due immagini, in uno stile più giapponese (anche se
molto mon): “Un garofano vibra / Mangia il tordo e se ne va”, dove il
proverbio è evocato implicitamente nella tipica immagine del tordo, mentre il
garofano (kigo estivo) è un’immagine efficace che rappresenta la donna
abbandonata (tra l’altro proprio così è usato nella poesia giapponese: come
simbolo di una donna). Le soluzioni, comunque, sono moltissime. La risata
dell’uccello, invece, vuole esprimere il cinismo del maschio, con ogni
probabilità, ma forzando troppo la metafora rischia di farsi solo beffe della
donna, descrivendola come se fosse in preda a fantasie tutt’altro che
ragionevoli.
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Sotto le nubi
La luna si nasconde
Fino all’alba
[M.Valeria
Ferruzza]
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Monji.
Soshin. Autunno. Amore. Luna. Alba. Fenomeni di sollevazione.
Questo ku si allontana bene dalla
sequenza precedente e introduce egregiamente un’immagine molto mon. Non
tratta esplicitamente d’amore. Tuttavia questo ku può essere considerato come
un ku d’amore più ancora di quelli precedenti, per due ragioni: innanzitutto
perché l’alba è strettamente associata (nella poesia giapponese, ma non solo
in quella) alla relazione tra due amanti; e inoltre perché la scena descritta
sembra sott’intendere una sorta di braccio di ferro in cui la luna si sottrae
fino all’alba. Anzi l’intero ku può essere letto come un ribaltamento del
maeku e una metafora dell’amante che cerca di vincere, per tutta la notte, le
resistenze dell’amata, che non cede perché, evidentemente, conosce bene i
vecchi proverbi! Ecco, questo passaggio si avvicina molto alla sensibilità
poetica giapponese nell’intrecciare i ku. È, comunque, uno tsuki no joza un
po’ sui generis, perché ovviamente qui ci si aspetterebbe una luna piena con
un riferimento più esplicito all’autunno. La luna, da sola, è effettivamente
un kigo autunnale (tsuki, 月:
http://worldkigodatabase.blogspot.it/2010/07/moon-in-autumn.html) ma presuppone, di solito, che la si guardi o che
comunque sia ben visibile. Anche in questo caso, quindi, ritorna stranamente
questa reticenza nei confronti delle posizioni chiave, come se l’atteso
autunno, finalmente giunto nello splendore della luna piena, subito si
negasse per non farsi ammirare. Sarà forse la cifra di questo shisan, che
sembra voler certificare il titolo offrendo solo un “sentore” delle immagini
cui accenna. Ad ogni buon conto, questo ku è molto ben fatto e fornisce
un’ottima base per il ku conclusivo.
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Ed il vulcano dorme
Pioggia di foglie secche
[Gabriella
Galbiati]
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Mon. Soshin.
Autunno. Montagne. Alberi.
Questo ageku chiude abbastanza
degnamente e dignitosamente l’intero shisan. Il collegamento col maeku è molto
lasco, anche se la congiunzione d’apertura lo rende quasi un hirazuke. Lo yūgen
è dato proprio da questa sospensione dovuta alla congiunzione iniziale mentre
la giustapposizione tra l’immagine del vulcano e la pioggia di foglie fornisce
un certo dinamismo. Le foglie secche sono, ovviamente, kigo autunnale. La
pioggia di foglie secche costituisce quasi un ossimoro. L’immagine del vulcano
dormiente avvolto dalle foglie secche sembra proprio costituire un suggello a
questo shisan che sembra essere caratterizzato dalla reticenza: “non è successo
niente”, sembra suggerire, “possiamo dormire tranquilli”.
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Nel complesso, questo “Nioishisan”
presenta molti difetti, anche se appare abbastanza corretto da un punto di
vista tecnico. Con molta probabilità, un poeta giapponese lo troverebbe, non
pessimo, ma assai bizzarro. Mancano quasi del tutto le classiche immagini
della poesia giapponese: non c’è una sola esplosione di fiori, non la
malinconia dell’autunno, nessun broccato dei campi, nessuna nebbia o foschia,
né il candore della neve. I petali sono lievi e la luna si nasconde, gli
amanti fanno sesso e a rimpiangere il tempo che passa sono i pianoforti, per
non dire degli uccelli che ridono. Tutto questo è decisamente molto haikai,
indubbiamente. Forse è anche molto occidentale, ed è comprensibile. Anzi
sembra quasi l’espressione di un renju che vuol fare poesia all’occidentale,
molto sperimentale e in rottura con la tradizione. L’intero componimento è quasi
tutto orientato sul mondo umano, per quanto manchi quasi sempre un qualche ku
esplicitamente adibito all’uopo; ha un tenore che tende molto al mon ma
mancano quasi sistematicamente immagini veramente mon; presenta collegamenti
piuttosto stretti ma, d’altra parte, non sviluppa mai delle vere sequenze.
Indubbiamente, lo shisan è un tipo di componimento che non consente di
sviluppare veramente l’arte del renga ma, proprio per questo, richiederebbe
forse un’applicazione più modesta e anche, magari, pedante, evitando immagini
troppo ardite o originali, in favore di scene canoniche, semplici, pulite. In
fondo, dovrebbe essere un piccolo calendario, un affresco delle quattro
stagioni. Qualcosa di simile alle illustrazioni di un almanacco. La lettura
dell’intero componimento è anche gradevole ma si avverte, tutto sommato, una
qualche mancanza, forse esplicitata proprio in quel carattere molto fumoso,
in questo senso di “nioi”, che lascia un po’ a bocca asciutta.
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