sabato 19 gennaio 2013

Nioishisan
7-1-2013 ― Napoli



Come un odore
Acre d’aghi d’abete
Al dì di festa
[Diego Rossi]

Le luci intermittenti
Sul presepe illuminato
[Elvira Acampora]

Ombre inquiete
S’aggirano vagando
Tra le stradine
[Gianfranco Irlanda]

Ululato nel buio
Si chiudono i cancelli
[Maria Valeria Ferruzza]

È custodito
Il giardino segreto
Petali lievi
[Marina Nardone]

Un vecchio resta zitto
Masticando una viola
[Roberta De Gregorio]

Densa polvere
Sui tasti logorati
Del pianoforte
[Stefania Nardone]

Si sfiorano le mani
Guardando il tramonto
[Rosalia Urna]

Pelle sudata
Saliva sulle labbra
Sabbia rovente
[Cristiano]

Uccello che ha mangiato
Vola via ridendo
[Gabriella Galbiati]

Sotto le nubi
La luna si nasconde
Fino all’alba
[Maria Valeria Ferruzza]

Ed il vulcano dorme
Pioggia di foglie secche
[Gabriella Galbiati]

© Diego Rossi 2008






Come un odore
Acre d’aghi d’abete
Al dì di festa
[Diego Rossi]
Mon. Inverno. Alberi. Religione.
L’hokku è molto vago. Forse non sarebbe definibile come mon puro, perché fa riferimento ad una situazione piuttosto specifica, per quanto solo indirettamente, suggerendo chiaramente il natale. L’abete è kigo invernale. Il toriawase è molto sfumato ma percepibile. Il “come” iniziale e l’assenza di verbi intensificano lo yūgen, sfumando molto l’immagine e approfondendola. La festa cui si accenna potrebbe forse costituire un tema religioso, anche se qui la presenza di un tema specifico è incerta.
Le luci intermittenti
Sul presepe illuminato
[Elvira Acampora]
Jimon. Shin. Inverno. Religione. Fenomeni luminosi. Prodotti umani.
Il waki continua l’immagine precedente per keiki, in un collegamento molto stretto (l’abete e il presepe sono, peraltro, un tipico esempio occidentale di “engo”, 縁語, essendo due termini ovviamente associati fra loro). Il presepe è kigo invernale. Il tema religioso qui è più esplicitato. Tuttavia il ku può essere letto in due modi: oltre che letteralmente, con riferimento ad un effettivo presepe, lo si può leggere come la descrizione di un paesino di montagna, animato, evidentemente, dalle feste, o da una rappresentazione sacra. Tanto le luci intermittenti (che costituiscono un fenomeno luminoso) quanto il presepe costituiscono dei prodotti umani.
Ombre inquiete
S’aggirano vagando
Tra le stradine
[Gianfranco Irlanda]
Monji. Shinso. Zō. Villaggi.
Il daisan si collega bene al waki, creando però un buon distacco dall’uchikoshi e allargando la “visuale”. Anziché proseguire l’immagine del waki, la reinterpreta, per così dire, decostruendola: così alle luci intermittenti si oppongono delle ombre inquiete e all’immagine complessiva di un presepe fa da contrappunto una “zoomata” sulle stradine, che però introducono un’immagine più dinamica e aperta, perché escono dalla dimensione casalinga in cui è ovviamente collocato il presepe.
Ululato nel buio
Si chiudono i cancelli
[M. Valeria Ferruzza]
Monji. Shinso. Zō. Notte. Villaggi.
Il collegamento è piuttosto stretto, per suggestione e per continuazione d’immagine. Le stradine del maeku evocano naturalmente i cancelli, per un’associazione abbastanza immediata (anche qui si può parlare di “engo”) mentre l’ululato sospeso nel buio si sposa bene con l’atmosfera lugubre evocata dalle “ombre inquiete” del daisanku. È un altro ku tendente al mon ma la scena descritta è molto legata a un immaginario più supernaturalistico che naturalistico. Sarebbe stato un mon perfetto se si fosse parlato, anziché di cancelli, di “vento tra gli alberi” o qualcosa di simile. Lo yūgen, comunque, è molto profondo e l’immagine è di forte impatto.
È custodito
Il giardino segreto
Petali lievi
[Marina Nardone]
Monji. Shin. Primavera. Villaggi. Fiori.
È un hana no joza molto prezioso e, al limite, “ardito”. “Custodito” e “segreto” creano una ridondanza che, ricollegandosi direttamente alla chiusura dei cancelli nel maeku, sembra davvero celare lo sguardo e non consente di figurarsi la scena. Lo yūgen è assicurato ― ma si avverte qui quasi una reticenza nei confronti del lettore, un’indisposizione ad offrire l’immagine del trionfo della primavera in tutto il suo splendore, come pure ci si aspetterebbe, a questo punto. Certo il legame col maeku non consentiva una reale esplosione della primavera, che avrebbe richiesto un collegamento decisamente so. Questa soluzione, invece, dà luogo ad un ku molto più “silenzioso”, con una bassa saturazione, si direbbe, in cui la primavera diventa una “promessa”, custodita gelosamente, che suggerisce quasi una relazione erotica.
Un vecchio resta zitto
Masticando una viola
[Roberta De Gregorio]
Jimon. Soshin. Primavera. Reminiscenza. Fiori. Persone.
Il collegamento col maeku è molto lasco ma è evidente nella reticenza che qui viene messa in parole, attraverso l’immagine di un vecchio, probabilmente di un custode, che resta in silenzio mentre mastica una viola. La viola è il necessario kigo primaverile. Per il resto, però, il ku non è affatto dedicato alla primavera, bensì alla figura di questo enigmatico vecchio, per cui introduce il tema della reminiscenza, o della vecchiaia, nello specifico. Il suo silenzio, anzi, potrebbe essere letto come un segno della sua “disillusione” di fronte alla sopraggiunta primavera. Nel complesso emerge una sequenza piuttosto amara: come una primavera che non è mai fiorita o che sfiorisce troppo presto.
Densa polvere
Sui tasti logorati
Del pianoforte
[Stefania Nardone]
Monji. Shin. Zō. Reminiscenza. Prodotti umani
Questo ku è un jimon o un monji. Può essere definito monji dal momento che è un’immagine molto efficace del passare del tempo in quanto tale, anche se è molto vivida e concreta (dunque ji). Inoltre la tenuta linguistica è molto poetica e l’assenza del verbo approfondisce lo yūgen rendendolo molto mon. Qui l’amarezza avvertita nei ku precedenti si concretizza nella polvere di un vecchio pianoforte abbandonato. Il collegamento è molto stretto, perché l’analogia si riallaccia direttamente alle parole del maeku: qui a stare zitto è un vecchio pianoforte. Inoltre la “viola” del maeku è letta qui come uno strumento musicale che sta, probabilmente, dimenticata insieme al pianoforte. Il tema è dunque quello della reminiscenza, perché riprende ed allarga l’immagine precedente, ma qui sarebbe più corretto parlare di transitorietà (i due temi, comunque, sono spesso considerati come un tutt’uno).
Si sfiorano le mani
Guardando il tramonto
[Rosalia Urna]
Jimon. So. Zō. Amore. Tramonto. Persone.
Il collegamento molto lasco col maeku può essere avvertito solo nello “sfiorarsi” delle mani che evoca uno sfiorare i tasti sul pianoforte. Per il resto la scena muta completamente, facendosi romantica e tendenzialmente ottimistica. È comunque molto ji, anche se l’immagine del tramonto eleva un po’ il tono. Questo ku crea una buona rottura con la sequenza precedente e si colloca come momento di passaggio per una nuova serie di immagini. Tuttavia non centra, sostanzialmente, il tema dell’amore, perché non fornisce dettagli e si configura come una cartolina piuttosto generica. Potrebbe anche essere un semplice schizzo di un panorama, con la descrizione in terza persona di due figure sedute o che camminano tenendosi per mano. Ma dovrebbe essere costruita diversamente se volesse essere un monku puro, dovrebbe essere molto più descrittivo (avere il tenore di un haiku, insomma) e quindi il lettore resta un po’ interdetto. Pertanto ci si aspetta uno sviluppo nei ku successivi.
Pelle sudata
Saliva sulle labbra
Sabbia rovente
[Cristiano Sorrentino]
Jimon. Shinso. Estate. Amore. Spiaggia. Persone.
Questo ku sviluppa coerentemente il ku precedente, in un keiki che rischia, però, di perdere l’occasione di introdurre veramente il tema dell’amore. La descrizione, ora, indugia su dettagli molto vividi di un rapporto sessuale. La sabbia rovente è kigo estivo, quindi sappiamo che si tratta di un amore estivo. Tuttavia rimaniamo sospesi tra il descrittivo, “oggettivo”, e la sensazione dell’amore. La ricchezza dei dettagli, inoltre, può essere considerata eccessiva nel contesto della poesia giapponese, poiché la “saliva sulle labbra” sarebbe un dettaglio di per sé già molto efficace mentre la “pelle sudata” non aggiunge molto alla scena. Del resto, l’insieme dei dettagli non fornisce nemmeno alcun elemento decisivo che riguardi davvero il tema dell’amore: in fondo, se non sapessimo che a questo punto dobbiamo aspettarci l’amore potremmo leggere il ku tranquillamente come la descrizione di qualcuno che si inumidisce le labbra mentre si abbronza sulla sabbia. L’hon’i dell’amore prevede un desiderio inappagato. Anche qualora fosse appagato, un ku sull’amore dovrebbe lasciar scorgere chiaramente l’elemento del desiderio: “L’osserva inquieto: nuda pelle sudata ― sabbia rovente” sarebbe una possibile soluzione, che non elimina l’idea di un appagamento ma lascia presagire, anche nell’ipotesi di un rapporto sessuale, tutta l’inquietudine del desiderio amoroso e dietro ad esso la scottatura di una delusione nell’irraggiungibilità di un reale congiungimento totale (che è, questa, la vera natura del sentimento d’amore).
Uccello che ha mangiato
Vola via ridendo
[Gabriella Galbiati]
Ji. Soshin. Zō. Amore. Uccelli.
Questa sequenza sull’amore è, evidentemente, il passaggio più problematico di tutto lo shisan. E non è un caso. Ora il ku coglie bene la possibilità di tagliare corto con l’amore e assume un tono sentenzioso molto efficace. Ricorre ad un vecchio proverbio, in un tono decisamente ji che spezza la tendenza piuttosto mon dell’intera sequenza. Il collegamento col maeku è distante, correttamente, ma rischia di affidarsi ad un riferimento ambiguo un po’ troppo volgare. Probabilmente molto haikai, del resto. Tuttavia quello che veramente risulta difficile da digerire in questo ku è l’immagine dell’uccello che ride. È una forzatura evidente che rischia di indebolire molto anche l’efficacia della metafora suggerita dal proverbio. Anche a voler leggere l’uccello come una vera e propria metonimia del maschio, anziché come metafora, semplicemente non funziona (anche tralasciando il cattivo gusto). “‘Uccello che ha mangiato / vola via’ diceva” sarebbe una soluzione comodissima, pulita, efficace. Del resto il proverbio potrebbe essere citato solo a metà, aumentando di molto l’impatto poetico e introducendo un elemento narrativo. Ad esempio: “Ridevo se diceva: ‘uccello che ha mangiato…’”; ovvero: “Eppur lo dicevano: etc.”; o ancora “ ‘Uccello che ha mangiato’ ― e io non ci credevo!” e così via. Ma potrebbe anche opporre due immagini, in uno stile più giapponese (anche se molto mon): “Un garofano vibra / Mangia il tordo e se ne va”, dove il proverbio è evocato implicitamente nella tipica immagine del tordo, mentre il garofano (kigo estivo) è un’immagine efficace che rappresenta la donna abbandonata (tra l’altro proprio così è usato nella poesia giapponese: come simbolo di una donna). Le soluzioni, comunque, sono moltissime. La risata dell’uccello, invece, vuole esprimere il cinismo del maschio, con ogni probabilità, ma forzando troppo la metafora rischia di farsi solo beffe della donna, descrivendola come se fosse in preda a fantasie tutt’altro che ragionevoli.
Sotto le nubi
La luna si nasconde
Fino all’alba
[M.Valeria Ferruzza]
Monji. Soshin. Autunno. Amore. Luna. Alba. Fenomeni di sollevazione.
Questo ku si allontana bene dalla sequenza precedente e introduce egregiamente un’immagine molto mon. Non tratta esplicitamente d’amore. Tuttavia questo ku può essere considerato come un ku d’amore più ancora di quelli precedenti, per due ragioni: innanzitutto perché l’alba è strettamente associata (nella poesia giapponese, ma non solo in quella) alla relazione tra due amanti; e inoltre perché la scena descritta sembra sott’intendere una sorta di braccio di ferro in cui la luna si sottrae fino all’alba. Anzi l’intero ku può essere letto come un ribaltamento del maeku e una metafora dell’amante che cerca di vincere, per tutta la notte, le resistenze dell’amata, che non cede perché, evidentemente, conosce bene i vecchi proverbi! Ecco, questo passaggio si avvicina molto alla sensibilità poetica giapponese nell’intrecciare i ku. È, comunque, uno tsuki no joza un po’ sui generis, perché ovviamente qui ci si aspetterebbe una luna piena con un riferimento più esplicito all’autunno. La luna, da sola, è effettivamente un kigo autunnale (tsuki, : http://worldkigodatabase.blogspot.it/2010/07/moon-in-autumn.html) ma presuppone, di solito, che la si guardi o che comunque sia ben visibile. Anche in questo caso, quindi, ritorna stranamente questa reticenza nei confronti delle posizioni chiave, come se l’atteso autunno, finalmente giunto nello splendore della luna piena, subito si negasse per non farsi ammirare. Sarà forse la cifra di questo shisan, che sembra voler certificare il titolo offrendo solo un “sentore” delle immagini cui accenna. Ad ogni buon conto, questo ku è molto ben fatto e fornisce un’ottima base per il ku conclusivo.
Ed il vulcano dorme
Pioggia di foglie secche
[Gabriella Galbiati]
Mon. Soshin. Autunno. Montagne. Alberi.
Questo ageku chiude abbastanza degnamente e dignitosamente l’intero shisan. Il collegamento col maeku è molto lasco, anche se la congiunzione d’apertura lo rende quasi un hirazuke. Lo yūgen è dato proprio da questa sospensione dovuta alla congiunzione iniziale mentre la giustapposizione tra l’immagine del vulcano e la pioggia di foglie fornisce un certo dinamismo. Le foglie secche sono, ovviamente, kigo autunnale. La pioggia di foglie secche costituisce quasi un ossimoro. L’immagine del vulcano dormiente avvolto dalle foglie secche sembra proprio costituire un suggello a questo shisan che sembra essere caratterizzato dalla reticenza: “non è successo niente”, sembra suggerire, “possiamo dormire tranquilli”.
Nel complesso, questo “Nioishisan” presenta molti difetti, anche se appare abbastanza corretto da un punto di vista tecnico. Con molta probabilità, un poeta giapponese lo troverebbe, non pessimo, ma assai bizzarro. Mancano quasi del tutto le classiche immagini della poesia giapponese: non c’è una sola esplosione di fiori, non la malinconia dell’autunno, nessun broccato dei campi, nessuna nebbia o foschia, né il candore della neve. I petali sono lievi e la luna si nasconde, gli amanti fanno sesso e a rimpiangere il tempo che passa sono i pianoforti, per non dire degli uccelli che ridono. Tutto questo è decisamente molto haikai, indubbiamente. Forse è anche molto occidentale, ed è comprensibile. Anzi sembra quasi l’espressione di un renju che vuol fare poesia all’occidentale, molto sperimentale e in rottura con la tradizione. L’intero componimento è quasi tutto orientato sul mondo umano, per quanto manchi quasi sempre un qualche ku esplicitamente adibito all’uopo; ha un tenore che tende molto al mon ma mancano quasi sistematicamente immagini veramente mon; presenta collegamenti piuttosto stretti ma, d’altra parte, non sviluppa mai delle vere sequenze. Indubbiamente, lo shisan è un tipo di componimento che non consente di sviluppare veramente l’arte del renga ma, proprio per questo, richiederebbe forse un’applicazione più modesta e anche, magari, pedante, evitando immagini troppo ardite o originali, in favore di scene canoniche, semplici, pulite. In fondo, dovrebbe essere un piccolo calendario, un affresco delle quattro stagioni. Qualcosa di simile alle illustrazioni di un almanacco. La lettura dell’intero componimento è anche gradevole ma si avverte, tutto sommato, una qualche mancanza, forse esplicitata proprio in quel carattere molto fumoso, in questo senso di “nioi”, che lascia un po’ a bocca asciutta.

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