domenica 20 gennaio 2013

Stasi invernale


Stasi invernale
Aleggia uno spiffero
Sogni confusi

Annusa l’aria intorno,
Ancor fredda, il procione.

Passi avveduti
Sul suolo taciturno
Della faggeta

Atmosfera d’attesa
Sul palco illuminato

S’apre il giardino
Ai giochi dei bambini
Si torna al sarchio.

Carezzano i petali
La terra levigata

E immaginare
Di sfiorare quel viso
Che non rivedrò.

Ricordi sussurrati
Dal suon delle cicale

Dolce far niente
Sull’amaca indolente
È canicola

La mano è abbandonata
Sulla vecchia cartina

Di nuovo in viaggio
Con le oche migranti
Sotto la luna

Al di là della nebbia
È in attesa la meta.

[Cristiano Sorrentino]

1 commento:

  1. Uno shisan molto ben studiato e calibrato. Davvero gradevole. Gli equilibri sono gestiti bene e la tensione complessiva è ben distribuita, a comporre una melodia, per così dire, efficace: molto tenue ma limpida. Né lo shisan consentirebbe qualcosa di più di un’aria leggera.
    La coppia d’apertura è molto efficace, perché fornisce subito un dialogo che restituisce un’immagine molto vivida dell’inverno. I due kigo sono “stasi invernale” e “l’aria ancor fredda”, tardo invernale. Tra l’altro “sogni” compare in una posizione insolita, perché è in un hokku invernale, mentre di solito si tende a conservarlo per ku primaverili, spesso in un contesto più romantico. Qui però si carica di un valore quasi zen, suggerendo l’idea di un’illusione che apre bene alle fuggevoli immagini che seguiranno.
    Il daisan prosegue la scena del waki in uno shinku che descrive i primi passi di questo procione. Il faggio, in sé, non costituisce kigo (forma kigo primaverile, con il fogliame verde, o autunnale, con uno rosso) e la faggeta è effettivamente una buona soluzione per introdurre un elemento molto caratterizzante (ce la possiamo immaginare molto bene d’inverno) senza definire la stagione.
    Il ku successivo cambia radicalmente contesto, per evitare, giustamente, un’eccessiva insistenza: collegandosi all’idea dei “passi avveduti” sul suolo descrive allora un palcoscenico dove un artista fa capolino nel silenzio d’attesa del pubblico. Il ku, pertanto, può essere definito soshin. Molto più so il nuovo tsukeku che si collega vagamente all’atmosfera d’attesa dei bambini che vogliono andare in giardino, presumibilmente. Il “sarchio” dà non pochi problemi, come kigo. Dovrebbe essere senza dubbio primaverile. Ma la sarchiatura, che avviene in primavera, almeno da noi, in giapponese è indicata con “ichibangusa”, “nichibangusa”, “sanbangusa” (一番草, 二番草, 三番草), cioè, letteralmente, “prime erbacce”, “seconde erbacce”, “terze erbacce”. (“Kusa”, 草, in realtà vuol dire “erba”, in generale, ma nelle suddette espressioni indica l’erba che viene tagliata nei lavori di sarchiatura). Il “sarchio”, invece, dovrebbe essere il “nejiri gama hoe” ma non sembra che compaia tra i kigo.
    Lo “hana no joza” è molto efficace, anche se è un po’ dimesso e potrebbe forse sfruttare meglio il “giardino” del maeku. Dovrebbe forse puntare a un picco lirico più elevato. Mentre è molto bello il passaggio da quest’immagine delicata alla dolorosa tenerezza dello tsukeku, che introduce il tema dell’amore, subito abbandonato nei “ricordi sussurrati”. Ora è estate: le cicale sono infatti un evidente kigo estivo (anche in Giappone). “Canicola” è il successivo kigo estivo. Forse questo passaggio è un po’ superfluo, sia perché in uno shisan due ku estivi sono un po’ troppo, soprattutto con un hokku invernale (in questo modo diventano otto i ku stagionali), sia perché è letteralmente una fase di stanca. Tanto più che questo passaggio un po’ sonnecchiante indugia ancora nella mano abbandonata sulla cartina, che davvero, forse, è l’effetto di una certa mancanza di idee. Per fortuna, si esce da questa fase di stanca con un bel ku autunnale che introduce anche il tema del viaggio in uno “tsuki no joza” molto ricco: le oche migranti (kigo autunnale) il chiaro di luna, l’inizio di un viaggio. Decisamente il picco più alto di questo shisan.
    L’ageku chiude bene l’intera sequenza, riavvolgendo tutto nella nebbia (kigo autunnale) ma il secondo verso è un po’ claudicante perché troppo ji e un po’ forzato nel linguaggio. Qualcosa di più sfumato sarebbe stato l’ideale: “da qualche parte ― si va”; o anche un ambiguo: “la metà ― sì ― la meta”.
    A parte questo piccolo neo, se ci fosse stato un maggior picco nella coppia di ku primaverili (che appaiono un po’ sottotono, tutto sommato) e un minor indugiare nella fase di stanca del “periodo estivo”, per così dire, sarebbe stato perfetto, questo shisan che davvero sembra caratterizzato dal sonno. Si potrebbe intitolare allora “Nemui Shisan”: 眠い四三.

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